Si riparte

A Pisa si discute su come progettare e portare avanti un fare teatro consapevole ma anche sostenibile.

Sabato 30 settembre al Teatro Rossi Aperto. Varie realtà si incontrano per affrontare diverse tematiche, tra le quali come superare l’impasse dovuta ai tentennamenti della Soprintendenza che, a fronte della prima tranche di 100 mila Euro, stanziati dalla Regione Toscana, preferisce l’immobilismo a un piccolo passo verso un restauro conservativo indispensabile non solamente per le attività delle associazioni, ma anche per la sopravvivenza stessa dell’edificio settecentesco – in alcune parti inagibile e pericolante.

Presenti all’incontro diverse realtà di spazi occupati – o liberati – provenienti da varie parti d’Italia – da Torino a Milano fino a Napoli. Questo perché se, da una parte, esistono spazi abbandonati in ogni città; dall’altra, esistono almeno altrettante realtà pensanti, e attive a livello culturale, che necessitano di luoghi dove far abitare le proprie idee. Ovviamente, in uno Stato che anteponga i diritti della proprietà privata all’esigenza pubblica di fare cultura, rigenerare i territori, dare sbocchi a una gioventù che non si adegua passivamente al consumismo massmediatico omologante, questa discussione apparirà utopica. L’alternativa, però, è un mondo irrespirabile sia a livello di macrocosmo – leggasi biosfera – che di microcosmo – leggasi spazi praticabili da una collettività pensante e non ubbidiente.

Due le problematiche principali che sono emerse nell’incontro. La prima, quella della produzione culturale – economicamente sostenibile – e, la seconda, il riconoscimento da parte delle istituzioni – senza uno snaturamento delle questioni di fondo, ossia una libertà di gestione, di ricerca e di linea ideologica. Perché una delle istanze emerse è anche la voglia di confrontarsi nuovamente sulle idee a prescindere dai personalismi, di condividere democraticamente le scelte piuttosto che affidarsi a leadership messianiche.

Le realtà dell’occupazione di spazi è, però, ancora attuale? E come si può fare tesoro degli errori del passato? Uno tra gli ex occupanti del Valle ha proposto di narrare la storia dell’occupazione del teatro romano quale momento formativo comune, fonte di controinformazione e come base collante di ripensamento del presente e per il futuro (esperienza di narrazione già realizzata a Livorno).

Durante la discussione si è anche puntualizzato che produrre servizi e progetti culturali – o welfare – non significa produrre meri valori monetizzabili (a fronte di spazi occupati che, oggi, hanno un giro di utili del tutto ragguardevole). Eppure non si può prescindere dalla gestione sostenibile, ossia da progetti che, pur riempiendo vuoti istituzionali e avulsi da logiche più tradizionali o mainstream, non ricadano per la loro ideazione e attuazione sull’autofinanziamento o sul volontariato (tenendo anche conto che la cultura, in Italia, dovrebbe essere una voce positiva di bilancio, come in altri Paesi europei, e non semplicemente una voce che si spegne di fronte a esigenze più strillate, come riasfaltare le strade o disseminare le città di lampioni).

Una modalità per agire consapevolmente è avere il sostegno della cittadinanza, il che significa innanzi tutto comunicare l’esistenza di queste realtà a chi, di solito, non solo non va a teatro ma non ha nemmeno una coscienza del valore culturale della riappropriazione degli spazi da parte delle comunità. Luoghi che producono bellezza – come ha spiegato un altro ex occupante del Valle.
Abitare spazi per ridiscutere di produzioni orizzontali non significa, d’altro canto, passare il tempo a guardarsi l’ombelico (come potrebbe apparire a un occhio esterno). E una delle proposte, pratiche e attuabili, emerse è quella della creazione di una rete, non solamente per ovviare a un’autoreferenzialità vera o presunta; ma perché, unendosi, le tante piccole realtà possono diventare luoghi dove si creano e si ospitano spettacoli, momenti culturali, progetti di controinformazione, servizi per la cittadinanza, usufruendo di un minimo di economie di scala (per fare un esempio pratico: poter ospitare Compagnie magari fuori regione, suddividendo le spese tra più realtà in rete anche attraverso una moltiplicazione delle serate offerte alle Compagnie stesse).

Altro tema emerso è quello dei modelli di gestione sempre per garantire l’autonomia e la democrazia decisionale, ma anche un minimo di entrate per sostenere non solamente la sopravvivenza della struttura e le produzioni, ma anche per superare l’attuale situazione di autofinanziamento o volontariato. Eppure, si può ripensare a economie alternative senza dover ricorrere a un finanziamento pubblico che, in caso vi si possa accedere, potrebbe imporre scelte ideologiche non condivise? Da un lato, gli spazi occupati non possono accedere ai bandi (che potrebbero lasciare maggiori libertà se finalizzati a progetti specifici); dall’altro, le associazioni (che spesso gestiscono questi spazi) preferirebbero accedere ai finanziamenti europei (in quanto meno asserviti a logiche partitiche – più che politiche).

Al Teatro Rossi Aperto emerge, quindi, l’esigenza della creazione di un’associazione che raggruppi più realtà come possibile grimaldello per accedere non solamente ai fondi pubblici ma anche per aprire un dialogo paritario con le istituzioni, per dimostrare all’esterno che un altro modo di produrre cultura è ancora possibile.

L’incontro è stato molto interessante ed è stato altrettanto interessante vedere come le persone che hanno partecipato e dialogato avessero età e provenienze culturali ed esperienziali molto diverse.

Eppure, in un’epoca di espulsioni (come descrive bene Saskia Sassen, in Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale), piccole realtà destabilizzanti o non omologanti come gli spazi occupati quale peso potranno mai avere rispetto alla creazione di un immaginario comune, che è poi alla base delle scelte economico-politiche dei territori? In parole povere, quanto ha inciso l’immaginario collettivo della libertà della frontiera e del self-made man, dell’arricchimento sfrenato sulla base di presunte qualità personali, sulla fine di ideologie che anteponevano il bene collettivo a quello individuale? La battaglia ideologica del capitalismo (termine che è stato pronunciato durante l’incontro), fin dagli anni 50, non si è solamente avvalsa di quella controinformazione glamour e globale che è, a tutt’oggi, Hollywood (vedasi il caso, ad esempio, di El Álamo: battaglia per la libertà del Texas, grazie a John Wayne; e in realtà, lotta di una minoranza anglosassone schiavista e straniera nei confronti di una maggioranza messicana antischiavista e, comunque, anch’essa non autoctona). Ma anche sull’espulsione di tutte quelle realtà piccole, medie o grandi che creano saperi e immaginari alternativi. Perché l’attuale capitalismo predatorio non può ammettere la messa in dubbio dei principi sui quali si basa – e che stanno mettendo sul lastrico non solamente interi strati sociali ma addirittura popolazioni, oltre a un depauperamento irreversibile di beni comuni quali l’acqua, il suolo e l’aria.

La rete può essere un’alternativa per far confluire conoscenze e risorse? Può esistere un modello alternativo di produzione culturale da ingegnerizzare nel piccolo e poi esportare all’esterno contaminando la realtà circostante? Si può ancora partire (o ripartire) dal piccolo e dal locale per costruire macroeconomie e macrosistemi?

L’incontro ha avuto luogo:
Teatro Rossi Aperto
via Collegio Ricci – Pisa
sabato 30 settembre, ore 15.30
hanno partecipato:
La Cavallerizza Irreale (Torino)
LAsilo (Napoli)
CTRL (Milano)
Lume – Laboratorio Universitario MEtropolitano (Milano)
Isola Teatro (Roma)
Teatro Lux (Pisa)
La Ribalta Teatro (Pisa)
Teatrofficina Refugio (Livorno)