Sofocle all’inglese e Martin Crimp all’italiana: al teatro Litta amore e morte, guerra e quotidianeità, valori e superficialità. Apatico.

Le Trachinie di Sofocle sono un capolavoro. Per tanti, tantissimi motivi, inutile elencarli.

Il capolavoro diventa un classico, il classico diventa un modello, i modelli vengono usati come fonte d’ispirazione. Così nasce, nel 2004, Cruel and Tender, versione moderna, anzi postmoderna, e decisamente inglese, dell’antica tragedia greca. Il risultato? Un testo interessante, attuale, che come il suo celebre antenato parla di amore e morte, e si interroga sull’eroismo, sulla guerra, sulle responsabilità. Il tentativo di seguire punto per punto la trama dell’originale sofocleo, però, conduce ad anacronismi e incongruenze – a tratti ridicoli.

Una madre che manda il figlio adolescente a cercare il padre, famoso generale d’esercito. Una moglie che spedisce al marito un cuscino con nascosta una miracolosa fiala capace di eliminare l’istinto guerresco, sperimentata sui macachi da un chimico pacifista. Un uomo che, rasa al suolo un’intera città per poter far sua una ragazzina (ed è necessario? Perchè non prendersela direttamente?), la spedisce a casa della moglie, a migliaia di chilometri di distanza, ad aspettarlo. Se il generale è Eracle, il luogo è la Tessaglia e la vicenda si perde nei tempi lontani del mito, tutto funziona. Se la moglie si chiama Amelia e i fatti avvengono ai giorni nostri, qualcosa inizia a stridere.

Poi, c’è la traduzione. I suoni sono vuoti, la sintassi faticosa, le espressioni perdono intensità, a partire dal titolo, in originale Cruel and Tender, ridotto in italiano a qualcosa che sembrerebbe più adatto a introdurre una telenovela. Restano molto belli alcuni frammenti, come il monologo finale di Amelia della lama vicino al cuore, o il freddo elenco che la domestica fa degli ultimi oggetti toccati dalla padrona prima del suicidio, ma purtroppo in generale i dialoghi sono piatti, e rallentati.

La regia non aiuta. La scelta di dare ai personaggi un finto accento straniero (forse per giustificare la reale cadenza inglese di Cara Kavanaugh) ridicolizza momenti solenni e mette in difficoltà gli attori, che a tratti tornano a parlare in perfetta dizione italiana. I movimenti sono poco curati, l’alzarsi, il sedersi, l’uscire e il disperarsi, tutto risulta forzato, finto, e l’improvvisa danza tribale della povera Laela è così fuori luogo, sconnessa, da perdere ogni artisticità e scatenare risolini imbarazzati.

Laela: personaggio ambiguo, la bellissima nera trofeo di battaglia del generale, si muove altalenando tra istinti arcaici (il ballo e il canto) e desideri di modernità e invece di creare un’immagine realistica di ciò che la contaminazione tra occidente e sud del mondo può provocare, impasta la sua figura di incoerenze e debolezze, con un risultato decisamente poco credibile. Cara Kavanaugh, invece, attrice protagonista della piéce, è totalmente inadeguata al ruolo, indiscutibilmente complesso sia per la mole di memoria che per le sfumature caratteriali da rendere; l’evoluzione del pensiero della donna, fino alla scelta del suicidio, si perde, e l’enfasi della sua ultima frase, «andiamo all’aeroporto», è così eccessiva da risultare comica. Meglio i personaggi maschili, soprattutto il generale, la cui rabbia e frustrazione ben si amalgamano con le espressioni del dolore fisico e mentale.

Bella invece la scenografia, con l’effetto stridente tra l’eleganza dell’arredamento minimal e il luccicante filo spinato, curata fin nel dettaglio dei fiori – rossi tulipani ancora chiusi. Peccato che il tutto sia dominato da un grosso schermo in cui scorrono, in video, le domestiche-donne del coro, che se inizialmente convincono, alla lunga diventano noiose, e a tratti persino finte, come quando, mentre Amelia parla, fsimulano attenzione con smorfie esageratamente interessate. Effetto voluto? Si voleva parlare della falsità, della finzione delle emozioni, delle relazioni, delle sensazioni e delle reazioni, della superficialità? Forse, ma quello che si vede è qualcosa di impreciso, indeciso; le denunce alla modernità sono fatte per stereotipi (la mano di una donna che si mette ossessivamente dello smalto rosso), e il finto non sembra ostentato ma piuttosto il risultato di una mancata di cura del dettaglio – terribili i video sgranati dell’ultima parte dello spettacolo.

Lungo, piatto, pesante. Si esce con un sospiro di sollievo, e non tanto per essere sfuggiti alla sensazione di claustrofobia che la casa-bunker di Amelia dovrebbe trasmettere. Restano il rispetto per il duro lavoro fatto, le riflessioni sull’impossibilità di definire il bene e il male – il crudele e il tenero, appunto – e la sensazione di aver visto qualcosa di importante, ma purtroppo davvero poco efficace.

Lo spettacolo continua:
Teatro Litta
corso Magenta, 24 – Milano
fino a domenica 20 marzo
orari: dal martedì al sabato ore 20.30 – domenica ore 16.30 (lunedì riposo)

Tenero + Crudele
di Martin Crimp
traduzione Alessandra Serra
regia Antonio Syxty
con Cara Kavanaugh, Gaetano Callegaro, Loris Fabiani, Volker Muthmann, Stefano Scherini e Elisabeth Semeha
in video Marianna de Pinto, Ginevra Notarbartolo, Giovanna Rossi
regista assistente Giovanni Sacchetti
assistente alla regia Manuel capraro
scene e costumi Guido Buganza
video e foto di scena Federico Cambria
montaggio video e disegno luci Fulvio Melli
staff tecnico Ahmad Shalabi. Alessandro Barbieri
direttore di produzione Gaia Calimani