Escargot, memoria e prelibate cavallette

Appuntamento al Teatro Studio Uno con la saga teatrale Teresa, santa puttana e sposa. È la volta del quarto episodio: La notte in cui Teresa dormì con la morte.

Il teatro è una stanza della memoria, come quelle soffitte polverose in cui vanno a depositarsi vecchie suppellettili fuori moda. Altrettanto spesso è un rifugio, come le case a misura di bambino ricostruite per gioco sotto un tavolo, magari con vecchie lenzuola tenute insieme dalle mollette dei panni.

Ecco la sensazione che sale prepotente prendendo posto con circospezione direttamente sulla scena che si fa una sola cosa con la platea, tra un letto matrimoniale di ciliegio e un tavolo con un grande centrino ricamato, sopra al quale è sospeso un lampadario d’ottone. Sembra di essere di troppo, di essere ammessi – non visti – dentro una memoria non nostra ma che misteriosamente ci abbraccia, facendoci sentire a casa.

Ci sediamo a un palmo dal dottor Emiliano Ghedin, pietosamente composto sul letto, morto da “giusto”, nell’atto cioè di scoparsi una puttana. Teresa per la prima volta assapora la “normalità” di sentirsi amata per come si è, una puttana certo, ma anche curiosa di conoscere i libri del suo nuovo amante, di assaporare sensazioni raffinate di cui è necessario prima apprendere la grammatica. Il Porto è un vino denso, non va bevuto prima di mangiare, ma solo così se ne può apprezzare il corpo. E poi? Poi Marsala, Tocai, Passito, come in un abbecedario di sapori, come la vita che si presenta piena di doni come quelli portati dai Magi a Nostro Signore.

Si può volare con la fantasia verso lontananze dove si mangiano pinne di pescecane, o più vicino, dove le escargot sono una prelibatezza; in Asia le cavallette si mangiano affondate nel miele. Teresa accede tramite il maturo Emiliano Ghedin a una nuova nascita. La sua femminilità non sarà più una minaccia, ma un sapore-sapere (le femmine sono il sale) da cogliere in uno sguardo, in un profumo catturato dal lenzuolo, in qualcosa da chiedere come grazia in una chiesa.

La memoria va alle nostre saghe familiari, narrate tra vino e pietanze povere, dove ci si offre il piacere di venire corrisposti. A tavola il linguaggio torna al materno, purissimo significante sonoro che non vuole significare niente se non la pietà e il perdono, tanto che Teresa può permettersi di dire sciocchezze e meditate verità come fossero un morso alla carne, un sorso alla coppa della vita o un birignao incomprensibile ma che è lo stesso il benvenuto.

I personaggi prendono carne in forme sorprendenti: la scenografia è un personaggio (talmente curata nei dettagli da rischiare l’impercettibilità), il chiasso asignificante a tavola è il personaggio della nostra memoria. La bella voce di Teresa che canta, il suo corpo sorpreso di elevarsi a dono per un uomo, i vestiti a terra, le lenzuola che si aprono come una grazia misteriosa, tutto contribuisce a contenere la storia di una redenzione per cui si prega, ma a chi? Dove sta l’Aldilà? Non certo dove lo promettono i preti, in una vita dopo la morte; forse più provvisoriamente è in un sorso di Porto, in una danza intorno al tavolo, in un fuggire per farsi meglio prendere.

La drammaturgia vaga nella narrazione come un bambino che a tavola sembra distratto ma che in realtà non si perde una parola dei discorsi dei grandi. Le luci, la texture dei tappeti e dei velluti (perfino della pelle), i suoni, il luccichio del lampadario, l’ombra agitata dal candelabro; tutto è significante teatrale. Gli attori – tutti – sono a loro agio, contenuti come feti nella bolla del teatro. Il pubblico per una volta è dentro, ma per un’inaspettata acrobazia anche dentro sé stesso, come se lo Studio Uno fosse una macchina della memoria.

«Ho vissuto qui e ho avuto perfino degli amici» ammette Teresa. Anche Emiliano in fondo cercava una pausa. Lasciare un’eredità di affetti, avere dei figli, a che vale se essi stessi scaveranno una mancanza che ci farà morti nel nostro orgoglio ancora prima di essere cadaveri? Teresa capisce che la pausa dentro cui vive con Emiliano è fondata su un’impossibilità, per questo sarà breve. Emiliano Ghedin è “benedetto da Dio” perché annegato dentro il lago di felicità aperto tra le cosce di una puttana, essa stessa vita che fugge. Sono stati sette anni, vissuti come dentro a un rifugio da una guerra. Teresa quell’ultima notte dormì con la morte, ma sapeva che in realtà era vita, più vita della vera vita.

Lo spettacolo continua
Teatro Studio Uno
via Carlo della Rocca 6, Roma
dal 22 al 25 marzo 2018
da giovedì a sabato ore 21, domenica ore 18

Teresa Santa Puttana e Sposa – Capitolo 4 – La notte in cui Teresa dormì con la morte
di Marco Bilanzone
regia Lorenzo Montanini
con Nadia Rahman-Caretto, Alessandro Di Somma, Giuseppe Mortelliti, Riccardo Marotta, Eleonora Turco
grafica Leonardo Buttaroni
produzione Teatro Studio Uno