Pas de aotearoa

Tra Haka aggraziati, cupi racconti di guerra, sogni di gloria infranti e passioni sfrenate, il Royal New Zealand Ballet (in prima nazionale per la Rassegna Tersicore) si fa foriero di un chiaro messaggio: il balletto non è morto. Al contrario, è più vivo che mai.

L’ensemble multietnico diretto ormai da un anno dall’italiano Francesco Ventriglia porta sul palco dell’Auditorium Conciliazione di Roma uno spettacolo in tre atti, tre come le isole della Nuova Zelanda, firmato da quattro coreografi di caratura mondiale. Sin dall’overture di Javier De Frutos, con il suo The Anatomy Of A Passing Cloud, l’aria che si respira tra le poltrone è di lieta sorpresa. Non appena i dodici étoiles fanno il loro ingresso sulla scena con sgargianti abiti che vogliono richiamare la policromia paesaggistica dell’isola, andando poi a disporsi intorno a un cerchio dai chiari rimandi tribali, sembra quasi di udire un sospiro di sollievo corale sollevarsi dalla platea: non sarà il solito, rigido, freddo balletto.
Il pezzo, creato per i 60 anni del balletto nazionale neozelandese, vuole essere una Storia della terra dei kiwi, narrata in prima persona dai suoi diacronici abitanti. Al ritmo di interferenze radiofoniche che scandiscono le varie epoche, escamotage che riesce bene per quanto trito e ritrito, i danzatori ci trasportano da subito in un mondo a noi estraneo, fatto di danze viscerali e animalesche. Siamo tra i Māori, guerrieri spietati, cannibali e sanguinari. Eppure il suono cadenzato della loro lingua madre che esce dagli altoparlanti diluisce la violenza ancestrale, ammorbidendo l’haka da noi erroneamente collegato alla sola guerra. Come manguste in amore, i sei uomini muovono sinuosi le proprie spalle, dando inizio a una sessione di gioiosi corteggiamenti ricambiata dalle sei donne, leggiadre ma decise valchirie boreali. Gli spensierati anni di isolamento, però, terminano tragicamente con l’arrivo dei primi esploratori. Il romanticismo polinesiano, caratterizzato da danze di gruppo dove il singolo non primeggia mai, lascia il posto alla logica mercantilistica del possesso, dell’accumulo e dell’eccesso. A suon di canzoni commerciali, il colonialismo divide la comunità, imponendo canoni binari persino all’amore. Le coppie si ritrovano a occupare adesso solamente un lato del cerchio, lo spazio non è più il luogo dell’incontro, bensì dell’insidia. Le tradizioni vengono relegate a intrattenimento e ludibrio per i “visitatori”.
Ciononostante, i Māori, si sa, non cedettero facilmente alle lusinghiere e accomodanti armi britanniche, e quando la radio si sintonizza su tamburi e percussioni incalzanti, ha inizio la rivincita dei nativi. Sbalordisce qui la fluidità e la naturalezza con cui i neozelandesi muovono i loro corpi temprati nel rigore del balletto classico, adattando ogni movenza, ogni pas, al tribalismo originario. Prima di perdersi nel buio delle quinte, l’ultima étoile volge lo sguardo indietro, sulle parole del Libro della Genesi in Māori, che assurge qui a simbolo dell’occupazione fisica e morale dell’Occidente su tutto ciò che tocca. L’omaggio di De Flores «ai colori, ai ritmi e alla tradizione di questa bellissima terra» risulta più uno sguardo nostalgico ai fasti cannibali che una presentazione a mo’ di Expo. L’anatomia di una nuvola che va, e che non torna più. Fugate le pretese antropologiche da National Geographic, infatti, la conquista e lo sterminio operati dagli occidentali vengono messe in scena nella loro subdola crudezza. Il messaggio, purtroppo, viene stemperato dalle parole del Direttore Artistico dell’intera Rassegna, Daniele Cipriani, che fanno piombare la pièce in un contesto di rivendicazione della commistione, dell’Unione come meraviglioso luogo di incontro, al di là dei massacri di corpi e culture fatti in nome del Carbone e dell’Acciaio.
Sulla seconda isola neozelandese, Dear Horizon e Passchendaele di Andrew Simmons e Neil Ieremia si contendono lo spazio da bravi fratelli. I due oriundi coreografi cambiano radicalmente il tono alla serata, imponendo violini disperati e movimenti frenetici. Siamo infatti in guerra, la Prima, di nome e di fatto. L’ANZAC (Australian and New Zealand Army Corps) è alle prime armi, e il contingente dei kiwi tornerà a casa pieno di orgoglio ma privo di vita. Il passo delle donne rimaste a casa è lento, lacerato, come i loro cuori. Un velo copre il volto, le vesti cadono al suolo, il gineceo è in preda agli svenimenti e alle lacrime. È tempo di miseria. La violenza e l’impeto di entrambe le pièce si contrappone alla lietezza di quella precedente. Raffiche sonore sterminano i danzatori, che cadono uno a uno come mosche. Un fischio solitario saluta per sempre gli “eroi” nazionali, morti per i giochi di potere di una nazione in cerca di approvazione e autodeterminazione imperialistica. Dice qualcuno: «poi su una targa di finto granito / il vostro nome verrà immortalato / per una piazza o per un viale di un brutto quartiere residenziale. / Forza e coraggio, boia chi molla / ci armiamo e partite, gioisca la folla / che paga gli aerei per legger la storia / finiti i soldi vi pagherà in gloria.»
I versatilissimi danzatori neozelandesi danno ulteriore e definitiva prova della loro bravura nel finissage diretto dal greco Andonis Foniadakis. Ispirato alle «toccanti pagine corali della Passione secondo Matteo e della Passione secondo Giovanni di Johann Sebastian Bach», Selon désir offre un tumultuoso insieme di étoiles in gonnella presi dal fuoco sacro, appunto, della passione. Come tanti fiori accarezzati dal vento, i movimenti si fanno più o meno viscerali a seconda del fremito che percorre le loro membra. Sia esso alito divino (uomo bianco) o pulsione terrena (donna azzurra), l’effetto è dirompente e tutti quanti ne subiscono le violente sferzate. La Rassegna si conclude con un’immagine forte. Il fiore blu, prostrato in un fascio di luce, retrocede nelle tenebre, forse sconfitto da qualcosa di più grande di lei, ma di certo non domato. Calato il sipario, si torna a casa con il cuore leggero, con rinnovata consapevolezza che il bello è, davvero, un linguaggio universale.

Lo spettacolo è andato in scena
Auditorium Conciliazione
Via della Conciliazione 4 – Roma
giovedì 3 dicembre ore 21.00

Rassegna Tersicore
The Anatomy Of A Passing Cloud
coreografia, scenografia e costumi Javier De Frutos
musica estratti da “Return to Paradise” (The Yandall Sisters), “Barbershop Wears a Lei” (Sounds of Aloha Chorus), “Ancestral Songs” (Pacific Origins), “Cook Islands Drums”, “Chants and Sounds” (Tumuenua Dance Group)
estratti dal Libro della Genesi in lingua Māori letti da Whare Moke
lighting design Jason Morphett
danzatori Abigail Boyle, Kirby Selchow, Tonia Looker, Clytie Campbell, Lucy Green, Madeleine Graham, William Fitzgerald, Shane Urton, Paul Mathews, MacLean Hopper, Jacob Chown, Loughlan Prior

Dear Horizon
coreografia Andrew Simmons
musica Gareth Fatt
scenografia e costumi Tracy Grant Lord
lighting design Jason Morphett
danzatori Abigail Boyle, Kirby Selchow, Tonia Looker, Clytie Campbell, Mayu Tanigaito, Hayley Donnison, Shane Urton, Paul Mathews, MacLean Hopper, Shaun Kelly, Loughlan Prior, Kohei Iwamoto

Passchendaele
coreografia, scenografia e costumi Neil Ieremia
musica Dwayne Bloomfield
lighting design Jason Morphett
danzatori Abigail Boyle, Alayna Ng, Kirby Selchow, Linda Messina, Tonia Looker, Hayley Donnison, Clytie Campbell, Lucy Green, Madeleine Graham, Elizabeth Zorino, Mayu Tanigaito, Damir Emric, William Fitzgerald, Shane Urton, Paul Mathews, Tynan Wood, Jacob Chown, Kohei Iwamoto, Shaun Kelly

Selon désir
coreografia, scenografia e costumi Andonis Foniadakis
elaborazione e sound design Julien Tarride
su musica di Johann Sebastian Bach
danzatori Abigail Boyle, Alayna Ng, Kirby Selchow, Hayley Donnison, Lori Gilchrist, Yang Liu, Linda Messina, Leonora Voigtlander, Shaun Kelly, William Fitzgerald, Shane Urton, Paul Mathews, MacLean Hopper, Jacob Chown, Massimo Margaria, Damir Emric, Loughlan Prior