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teatro-la-comunita-romaDopo il successo al 57°Festival di Spoleto, arrivano “i morti” a Roma. La penombra di esistenze in bilico avvolge il teatro La Comunità, eppure il gotico delle atmosfere non impedisce alla luce di arrivare all’intero gruppo di attori e al loro capitano, Giancarlo Sepe.

Tristemente ammettiamo che si vive nel frattempo, nella durata tra il parto e la morte. In questo lasso di tempo, il bocciolo lacera i sepali del calice e si schiude, fiore che, seppure reciso, resta vivo nel mazzo, in vaso, ad appassire. Morti in vita, vivi evanescenti. Venire al mondo è un atto violento, chiunque abbia assistito a una nascita può confermare, ma violenta è anche la sopravvivenza, portare avanti aspirazioni e aspettative di giorno in giorno, perché esistono condizioni in cui continuare a sperare sembra contro natura. E poi la morte, svergognatamente definitiva, risolve la partita strappando via i sogni con violenza. Solo allora ci si accorge di avere perso più di un’occasione, di avere perso sistematicamente per l’impossibilità di reagire, tra la folla di ombre, a una situazione di paralisi universale. «Uomini vuoti» li apostrofa Eliot, sagome di cartone pressate dallo Stato, dalla famiglia, dalle convenzioni (im)morali, dalla religione, dalla tradizione. Pesanti come un macigno legato alle caviglie delle generazioni sempre più sottili rispetto al passato. La massa del mondo moderno che oggi comprendiamo assai bene. Morti che sovrastano i viventi, i viventi che miseramente soccombono.

Sul grande tavolo rettangolare al centro della scena spoglia è sparsa una miriade di fiori finti, stesi tutti intorno i cadaveri dormienti di uomini e donne in attesa di risveglio. Questa è l’immagine da brividi in apertura a The dead. Giancarlo Sepe, nel suo intento di omaggiare quattro scrittori irlandesi (come racconta nell’intervista con Persinsala), affronta coraggiosamente un autore complesso, denso, intoccabile e cardinale, James Joyce.

Dall’incontro nasce uno spettacolo magnetico, visionario con misura, un sogno lucido di un regista/autore certo affermato, ma sempre curioso e capace di mettere su un cast tecnico impeccabile e giovani attori notevoli, tutti bravi (alcuni bravissimi, Manuel D’Amario e Caterina Pontrandolfo). Eppure questo  15: The dead  Part one non è una passeggiata. Bisogna lasciarsi coinvolgere senza resistenze, perdersi nel bosco come il cacciatore Sam Fathers alla ricerca di Old Ben in The Bear di Faulkner.

Lontano dall’essere una drammaturgia didascalica del quindicesimo racconto che conclude Gente di Dublino, lo spettacolo ideato da Sepe è una celebrazione meritevole delle atmosfere poetiche che percorrono l’intera raccolta. Padre Flynn, Eveline, la mesta allegria da bazar di Araby, non solo Gabriel e Gretta compaiono sulla scena, come personaggi/burattini nella mente dell’autore Joyce/Sepe. Una serie di quadri, ma potremmo definirli racconti, che rappresentano questo popolo disfatto in vari momenti d’aggregazione.

Feste come funerali, fiori colorati di un giardino a primavera lasciati sulle tombe nei cimiteri. Gli stessi fiori e colori sui vestiti buoni indossati in scena in un momento particolarmente congeniale. I personaggi prendono vita per un impulso doloroso e irrefrenabile, un flusso di coscienza.

Sconvolti, si muovono a fatica, sotto sforzo, l’esistenza a convulsioni. I corpi scolpiti dalle luci si intrecciano al tessuto musicale costante (e magistrale). La musica che è vita, canto, preghiera diviene funebre in questa morte ambigua, struggente come solo una ballata nordica.

Musica che ritroviamo anche nel linguaggio, quel dialetto irlandese fuori campo, dalla radio e in scena. Joyce non aveva compiuto trent’anni quando scrisse i racconti sui dubliners, pubblicati nel 1914. L’Europa sconvolta da una guerra spietata e totale. Il giovane Joyce osserva e inchioda il mondo sotto uno sguardo penetrante con una visione al contempo realista e mistica della realtà, lui che apparteneva alla piccola borghesia proletaria irlandese, lui circondato da miserabili, non da campioni di raffinatezza, di cattolici bigotti, lui che aspirava all’estetica in un mondo esploso, e sognava di volare con le sua ali di cera fino in cielo, diventare il dio nel suo personale universo letterario.

Un dio che non castiga gli umani troppo umani, li accoglie per ciò che sono, nelle loro piccole manie, dubbi, tensioni, protagonisti di un’epica in giacca e cravatta, esaltata dalle figure magistrali della triade Stephen Dedalus, Leopold e Molly Bloom di Ulisse. Se in una esemplificazione schematica consideriamo Joyce e Virginia Woolf come i genitori del modernismo, il loro atteggiamento rispetto alla Seconda Guerra Mondiale è eloquente sul loro rapporto con la disperazione.

Woolf scelse il fiume, trascinata come ghiaia dalle onde. Joyce è partito prima a Trieste e poi in Svizzera, cinico, sprezzante ma innamorato della vita. Comunque vada.

Il tema del viaggio è fondamentale nella letteratura di Joyce, come fuga, risoluzione oppure come esilio. Straniero in patria. La condizione degli irlandesi espatriati negli Stati Uniti. Popolo che ha sfidato la morte nelle tempeste oceaniche per un po’ di libertà. Canti e balli di superstiti, in conclusione di questo spettacolo. Un popolo simile al nostro popolo.

E non le fa eco la condizione degli artisti teatrali (e non) in questo misero microcosmo culturale italiano oggi immobile e paralizzato?

Spettacolo intenso e pregevole, merito di Sepe che non è «rimasto indifferente, a limarsi le unghie» come affermava Joyce rispetto ai suoi personaggi, ma ha condiviso una personale intuizione con il gruppo di collaboratori, il quale ha accolto e valorizzato. Un popolo, una comunità.

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Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro La Comunità
via Giggi Zanazzo, 1 – Roma
da venerdì 10 ottobre a domenica 2 novembre – prorogato fino a domenica 30 novembre
orari: dal giovedì al sabato ore 21.00, domenica ore 18.00
(durata 1 ora circa, senza intervallo)

Una produzione Bis Tremila srl
The DUBLINERS by James Joyce – 15: THE DEAD  Part one
spettacolo ideato e diretto da Giancarlo Sepe
scene e costumi Carlo De Marino
musiche a cura di Harmonia Team
con la collaborazione di Davide Mastrogiovanni
luci Stefano Pirandello
direttore di scena Guido Pizzuti
con Giulia Adami, Lucia Bianchi, Paolo Camilli, Federico Citracca, Manuel D’Amario, Giorgia Filanti, Domenico Macrì, Caterina Pontrandolfo, Guido Targetti
voce Pino Tufillaro