Al Teatro Libero va in scena il caleidoscopio delle esperienze dolorose che, a volte, aiutano a rinascere.


Sentirsi talmente soli e abbandonati da volersi uccidere e, per farlo, scendere sempre più a fondo negli abissi del dolore, autoinfliggersi la punizione per essere ciò che si è, ridursi a oggetti sessuali perché si pensa di non poter essere altro. Quante volte in letteratura e al cinema questi temi sono diventati i temi centrali di opere che ci hanno emozionato, e si sono portate via un pezzetto di noi? Nel 1963, John Rechy scriveva City of night (in italiano, Città di notte): le esperienze di un ragazzo in vendita, raccontate con una prosa che Ferdinanda Pivano definiva: “lirica e allucinata”, un’immersione completa nei tabù dell’omosessualità che, in quegli anni, sempre la Pivano ricordava essere: “vissuti da uomini dolenti, provvisori, nascosti dietro a maschere”.

Nel ’92 la discesa all’inferno è ritorno era anche l’ultimo viaggio di Cyril Collard, che scrive, dirige e interpreta Notti selvagge, un film autenticamente struggente – aggettivo ormai desueto che però condensa in una sola parola il desiderio indomito di vita e felicità di Collard, che morirà a breve di Aids. Nello stesso anno, Denys Arcand firmava la regia di La natura ambigua dell’amore, adattamento di un’opera teatrale del connazionale Brad Fraser (titolo originale: Unidentified Human Remains and the True Nature of Love) che, nel ’92, Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani avevano già portato sui palcoscenici milanesi, avendo il coraggio di ambientare il testo nella nostra città – allora la capitale morale d’Italia che stava scricchiolando sotto il peso della corruzione (e non certo dei costumi) e, oggi, del becero celodurismo – perché l’omosessualità non è qualcosa che riguarda un’umanità altra, lontana, alla quale possiamo o meno appartenere e con la quale possiamo perfino non avere a che fare (come sostengono alcuni benpensanti e politici di casa nostra), ma è un aspetto della nostra natura – ambigua e sfaccettata – come qualsiasi altro impulso più o meno sopito, più o meno cosciente, più o meno accettabile.

The Houseboy – Ragazzo Tuttofare non è quindi il primo testo a descrivere le reazioni di un ragazzo che, dopo aver fatto outing in famiglia ed esserne stato allontanato, accetta di vivere una relazione “borderline” – per semplificare – solo per riempire il proprio vuoto e, quando anche questa relazione si incrina, decide di farla finita – proprio la vigilia di Natale, il giorno che l’immaginario collettivo addita come il più felice dell’anno, la simbolica perfetta espressione della famiglia patriarcale, spesso abisso di ipocrisia perbenista (come descrive ottimamente un’altra pièce in questi giorni al PiM Spazio Scenico, Finefamiglia di Magdalena Barile).

Ma The Houseboy nasce come film e, perciò, risente di una condensazione del linguaggio che, purtroppo, a teatro risulta un po’ povera. Per supplire a questo difetto gli vengono in aiuto una scenografia semplicemente geniale che trasforma il piccolo palcoscenico del Teatro Libero, con l’uso di una pedana girevole, in una camera da letto, una cucina, l’esterno delle abitazioni: restituendo persino quell’idea di freddo che si può respirare nella settimana prima di Natale guardando dall’esterno, attraverso le finestre coperte di ghirlande e luci, all’interno di abitazioni calde, che non ci apparterranno mai – perché noi ne siamo per sempre esclusi. Altro mezzo per tradurre un film in uno spettacolo teatrale è l’estetica delle scene forti, che spesso trasforma i momenti più duri in tablueaux vivants o danze ritmiche di corpi, che fanno sesso con la stessa plasticità delle sculture classiche. Mentre – come nella tragedia shakespeariana – Massimo Stinco lascia che il pubblico immagini solamente le azioni più brutali, che si compiono sempre fuori scena e la lingua, che potrebbe apparire oscena, è invece pregnante nella sua onestà, e prima di giudicarla negativamente dovremmo ricordarci che alla poeticità della scena al balcone, il maestro di Stratford-upon-Avon opponeva la scurrilità giocosa e colorita di Mercuzio in quella commistione di alto e basso che, da sempre, fa grande il teatro in lingua inglese.
Ottima infine l’interpretazione di tutti gli attori e menzione particolare per il giovane e bravo Fabio Maffei, disarmante, tenero e dolcissimo.

Ma perché uno spettacolo così deve andare in scena in occasione di una rassegna di teatro omosessuale? In questa italietta ipocrita è ora di sdoganare insieme ai Tony Kushner – benedetti dal passaggio televisivo – anche tutti gli altri autori che raccontano storie di vita omosessuale perché non sono altro che storie di vita – e il teatro, da sempre, è lo specchio nel quale la società si riflette e riflette su di sé. Forse qualcuno crede ancora che l’omosessuale sia l’altro, al di fuori della nostra società?

IVa Rassegna di teatro omosessuale
Liberi amori possibili
Teatro Libero
via Savona 10 – Milano
www.teatrolibero.it
fino a martedì 11 maggio, ore 21.00

Massimo Stinco/Noir Desir – Firenze:
The Houseboy – Ragazzo Tuttofare
di Spencer Schilly
regia Massimo Stinco
con Fabio Maffei, Simone Marzola, Tony Allotta, Giovanni di Lonardo, Orazio Sagone Manzella, Simone Fucci, Jacopo Bartaloni, Massimo Stinco e con la partecipazione straordinaria di Regina Miami
V.M. 18 anni

I prossimi spettacoli:
sabato 8:
Prigionieri del sesso

domenica 9:
Ultima stagione in Serie A

lunedì 10:
Tuttonostro

martedì 11:
Alexis o il trattato della lotta vana

Eventi collaterali:
lunedì 10 maggio ore 19.00:
Storie di Omogenitorialità
Dibattito con presentazione del docu-film Il lupo in calzoncini corti di Nadia Dalle Vedove e Lucia Stano