Ad Arte getta il cuore oltre l’ostacolo e presenta, in nuove vesti, un festival orgogliosamente fedele alla propria originaria intenzione di provocazione – non solo promozione – delle Arti e della Cultura.

Scongiurata, almeno temporaneamente, la paura della fine, Ad Arte Teatro Cine Festival apre le proprie porte a un’edizione emblematicamente dedicata all’urgente tentativo di fare di necessità virtù, la resilienza.

L’accesso al finanziamento pubblico reso sempre più difficile ed esclusivo dalle astruse assurdità delle legislazioni nazionali e regionali, la sostanziale latitanza e il disinteresse del privato nell’investire in provocazione culturale, la genuflessione del gusto comune a logiche di mercato e di botteghino che nulla hanno a che vedere con l’arte, sono elementi che avevano messo seriamente a rischio un festival che, da ben quattro anni, sta strenuamente cercando di innestare linfa vitale in un contesto locale e nazionale dalle grandi potenzialità, ma purtroppo sempre più inespresse.

Al netto di una complessità organizzativa che ormai fa rima con ambizione (anche nel caso di realtà ben più monumentali e rodate: ed è impossibile non citare il Roma Fringe Festival, costretto più volte a rimandare il proprio debutto a causa dell’inedia municipale), Ad Arte propone dunque una tre giorni fittissima di eventi all’insegna della multidisciplinarietà, dell’incontro artistico e, quando e se possibile, anche della contaminazione linguistica. Appuntamenti – dal reading al teatro fisico, dalla musica alle conferenze – concentrati all’interno del borgo, negli straordinari e naturali spazi architettonici di Calcata, hanno esaltato il protagonismo estetico e la valenza spettacolare di un luogo capace di far convergere un pubblico sempre più numeroso ed energie sempre più intense. Mancano le prime assolute e le produzioni create per il Festival, ma non l’invito a prendere parte a un’esperienza artistica che ha visto i vicoli e le piazze di Calcata mietere sold out, attestando di fatto quanto l’appeal di Ad Arte possa essere ormai consolidato e l’attesa nei suoi confronti corrisposta.

Iniziamo la nostra lunga giornata alla Rupe Maggiore con Ammazzare le donne è facile, reading tratto dall’omonimo libro di Giuseppina Pieragostini, di e con Emanuele Vezzoli, la cui interpretazione, nonostante non sia stata esente dall’essere stucchevole rispetto a un testo che, probabilmente, avrebbe necessitato di un adattamento più snello, è stata stesso tempo intensa ed empatica, come riconosciuto dal convinto applauso finale del pubblico.

Vestito da cacciatore, con tanto di fucile, Vezzoli descrive con voce suadente la squallida figura di un uomo che sta facendo i conti con la propria vita. Trasfigurati i resti della moglie scomparsa nel disegno di un teschio e in una pianta, sublimata l’ossessione del dominio patriarcale in un flusso di coscienza altamente drammatico e da cui emerge la castrazione della dignità dal femminile, Vezzoli ne ricostruisce i presupposti psicologici e, nel volto dell’Altro da sé (la donna), specchia la relazione del Maschio con il mondo. Di fronte a un ammonimento che non potrebbe essere più perentorio (l’uomo che pensa di avere potere, senso e valore annientando il negativo/la donna, finirà per legittimare e giustificare ogni azione attraverso il conflitto con il nemico/il Femminile), i presupposti non potrebbero essere più tristi (l’unico amore ammissibile, sia per Lui che per Lei, sarà quello per una ideologica e finta Virilità) e le conseguenze più desolanti perché, nonostante il personaggio cerchi lungamente di illudersi del contrario, la giustizia affermata attraverso la negazione di ogni manifestazione di un’umanità altra e compiuta, piena e consapevole non potrà che essere prepotenza.

In Piazza dei Troni, Arianna dell’Arti ha, invece, presentato per voce sola (senza l’accompagnamento musicale di Davide di Rosolini) Sto bene medio, racconto di una vita condivisa con le nevrosi tipiche della contemporaneità. Stati d’animo, emozioni e paturnie personificati in autentici character e valletti di compagnia e che la dell’Arti, opportunamente, non ha declamato, ma condiviso con sagace ironia a un pubblico ben disposto a lasciarsi coinvolgere, divertire e non partire un incedere dai tratti cabarettistici.

Piazza Grande è, poi, stato il palcoscenico scelto per il corto teatrale Giuditta, ovvero le quattro stazioni di una guerra, «primo studio sulla Bibbia, e nello specifico su uno dei libri più celebri dell’Antico Testamento» con cui la compagnia C.T. Genesi Poetiche ha recuperato la vicenda dell’eroina che – pur di decapitare il generale Oloferne e così salvare il proprio popolo dall’assedio assiro – offrì il proprio corpo senza compromettere la propria anima.

Immaginato un dialogo ideale tra la nobile giudea e Artemisia Gentileschi, Polisso si domanda se «il tempo di Giuditta sia così lontano dal nostro?» e cerca di «mettere in luce non solo la storia che precorre la realizzazione di un’opera d’arte, ma anche i temi di stretta attualità che la rendono immortale».

Daria Contento, interprete unica, percorre con bella eleganza (nei costumi e nel portamento) le quattro stazioni del conflitto materiale e spirituale che la protagonista fu chiamata a combattere prima di essere degna del premio di una vita ultracentenaria; tuttavia, impostata la propria vocalità su una evidente e monocorde forzatura drammatica, la sua gestualità è apparsa ancora acerba rispetto a quello che, allo stato attuale, ci appaiono essere le principali sfumature di grigio di questo allestimento, quelle di un lavoro pedantemente legato a una restituzione didascalica del simbolico (annunciato fin dall’esposizione del celeberrimo Giuditta che decapita Oloferne della Gentileschi sullo sfondo della rappresentazione e confermato dall’oggettistica in scena) e in parte confuso tanto nella costruzione linguistica (inspiegabile utilizzare l’inglese in un testo completamente italiano per introdurre i quattro quadri con «first station», etc), quanto nel rimando a un’attualità che scompare nell’assenza di qualsiasi riferimento concreto o immaginifico.

Dopo il suggestivo «Experimental Folk» musicale di Matteo Colasanti e Laura Desideri alla Rupe dello Scorpione, la prima giornata teatrale di Ad Arte (che, ricordiamo, vanta anche l’interessante programmazione Cinema al Granarone con la collaborazione del MovieClub Film Festival di Palestrina) si è conclusa con il poetico Oscar, vita di un genio, appassionato e appassionante omaggio di Tommaso De Santis a Oscar Wilde, autentica danza verbale, tra spunti biografici e domande maieutiche, disegnata come parabola all’interno della ruggente e formidabile esistenza di uno dei più profondi interpreti della crisi di fine ‘800. Della composizione interattiva del reading, della delicatezza e del garbo con cui è stato condotto, ha colpito e convinto, in particolare, la maturità con cui l’artista toscano, mai pedante, ha gestito lo spazio nei termini di prossimità, relazione e interazione con il pubblico.

Una prima giornata dunque caldissima, per nulla raffreddata dalla copiosa pioggia caduta poche ore prima dell’inizio, nonché capace di mantere fede, con la straordinaria disponibilità e complicità degli artisti, all’impegno resiliente di Igor Mattei e Marina Biondi di «oltrepassare gli spazi performativi abituali, invadendo le piazze, i vicoli, le case, prelevando e lasciando segni, innescando giochi per la comunità» e così comporre «un vero e proprio circo senza tendoni né palcoscenico, un teatro a cielo aperto animato da artisti di tutto lo stivale».

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno di Ad Arte TeatroCineFestival
location varie, Calcata
1 settembre, dalle 16:30

Ammazzare le donne è facile
tratto da Ammazzare le donne è facile. La ballata dell’uomo triste di Giuseppina Pieragostini
di e con Emanuele Vezzoli

Sto bene medio
di e con Arianna dell’Arti

Giuditta, ovvero le quattro stazioni di una guerra
ideazione, testo, drammaturgia e regia Gianluca Paolisso
con Daria Contento

Oscar, vita di un genio
di e con Tommaso De Santis

Dharma Bums
di Matteo Colasanti e Laura Desideri