La prima settimana del Fringe Festival di Roma è terminata, con i consueti appuntamenti che mettono in primo piano compagnie emergenti, o più in generale, che hanno voglia di esporsi e presentare i loro spettacoli in un festival, che oltre a rappresentare una vetrina è stato in passato un luogo di incontro e di scambio culturale, teatrale e artistico. Quest’anno il Fringe, in una versione insolitamente invernale e, a prima impressione, altamente discutibile, sta avendo luogo al Mattatoio – La Pelanda, con degli appuntamenti extra previsti al Macro Asilo e la premiazione finale al Teatro Vascello il 28 gennaio.

Attesa, spettacolo vincitore del premio miglior drammaturgia al Festival InDivenire, nasce da un’ idea di Elena Oliva ed è prodotto dalla giovane compagnia Madiel. È la storia di una bambina che ha avuto problemi a causa della morte del padre e che si trova fin da piccola, e crescendo ancor di più, ad avere il bisogno incontrollabile di essere madre. Allo stesso tempo, il suo rapporto con l’universo maschile non è dei più facili: in una ricerca spasmodica di un lui che si adegui alle sue necessità e al suo modo di essere donna, sembra però non cogliere il motivo per cui tutti le scappano. Ma continua a essere comunque se stessa, costi quel che costi. E in questo caso, le costerà probabilmente, una gravidanza, avuta da una sua ultima conquista.

Non ci è dato sapere se la relazione continuerà, se la gravidanza continuerà (o almeno non si capisce in maniera esplicita), ma il desiderio di essere madre, probabilmente, in modo più o meno conscio, continuerà ad assillare la mente della protagonista. Lo spettacolo, lascia aperta questa finestra. Lo spazio scenico è organizzato con oggetti che vengono ogni volta riplasmati dagli attori, che ne danno un senso o provano a darne un senso: il palloncino per simulare l’attesa e la gravidanza, tavolini illuminati da sotto per simulare tablet, giochi da bambini che lei puntualmente rotti da lei, un cubo multifunzionale, in una storia che vuole arrivare al pubblico ma che probabilmente ha ancora la necessità di essere elaborata per arrivare nel pieno dei suoi significati.

I problemi di una generazione frustrata che vede di fronte a se un avvenire improbabile vengono raccontati in Casella 17 della Compagnia Duramadre. Seppure ancora con margini di sviluppo, è interessante la scelta del parallelismo tra la proiezione video alle spalle dell’attrice – in cui si vede un personaggio che pare essere la sua coscienza e che le farà percorrere delle caselle come nel gioco dell’oca – e l’attrice in carne ed ossa, Elisa in un doppio gioco di auto-etero-rappresentazione.

Gioco e vita reale a confronto: la protagonista troverà infatti in ogni casella degli oggetti e delle situazioni della vita quotidiana. Una cornice per presentarsi, delle scarpe con il tacco per un colloquio importante (che si dimostrerà essere l’ennesimo stage non retribuito), il ventaglio che rappresenta la figura materna e la relative incomprensioni fra madre e figlia. Tutti pezzi, tutte caselle di un’esistenza inquietante quanto quotidiana e banale, di una vita nella quale ci vengono assegnati dei ruoli, ci vengono offerte delle caselle su cui muoverci, caselle che il più delle volte rischiano di annullare la nostra vera felicità, la nostra ragion d’essere. Elisa sogna di tuffarsi in un mare di tulipani, carica di un passato incasellato e incasellante e di un presente che non la porta da nessuna parte, o la porta solo ad essere quello che la società vuole che lei sia. Ma il tempo scorre, come le ricorda la maga misteriosa che la guida dal video, e la vita, prima o poi finisce.

Debole, invece, sia per formalismo scenico, sia per precaria tenuta attorale, Il Signor Dopodomani, inficiato a livello strutturale anche da un testo che, nonostante alcuni momenti di riuscita ironia, è sembrato annaspare nella continua ricerca della battuta surreale a effetto. Un uomo registra «un messaggio per il suo grande amore, durato una eternità di soli tre anni, e mai più dimenticato», si dimena quasi in un corpo a corpo con quello che, «prima che scomparisse per sempre, di lei gli è rimasta […] una audiocassetta, con dentro canzoni, voci e rumori dei loro anni insieme, ultima testimonianza di ciò che era stato il loro meraviglioso amore». Rabbia, rancore, sarcasmo riempiono il tono e il senso di quello che risulta un flusso di coscienza diretto a «una vendetta! Implacabile, feroce, definitiva, affinché lo salvi finalmente da tutto quel suo immenso dolore». Allontanata l’immedesimazione, dunque la catarsi, a causa di una restituzione attorale monocorde e perennemente sopra le righe e impedito lo straniamento, dunque la riflessione, per come l’allestimento e il protagonista ostentano la propria eccentricità, lo spettacolo paga malamente un’impostazione confusamente a metà tra tradizione e la sua destrutturazione, dando esito a un monologo urlato in faccia allo spettatore, banalmente vintage nell’oggettistica (strumenti di registrazione audio, un mangianastri d’antan) e poco modulato nella relazione con il pubblico.

Ha convinto, invece, La felicità, il racconto di «tre donne della Catania del 1968, chiuse in casa, mentre fanno cose da femmine». Le troviamo disquisire sul rapporto tra donne e uomini. Due di esse hanno le idee chiare. La prima è «sposata con un uomo che non c’è mai perché si spacca la schiena di lavoro, ma non le fa mancare niente», la seconda è «zitella, tutta casa e chiesa […] felice nel suo bigottismo». Entrambe, però, concordano sul fatto che le donne debbano stare al loro posto, e come quel posto sia già stato deciso per loro, ma non da loro. E va bene così, la felicità, per queste due donne, è un ideale (di famiglia) da ostentare più che da vivere, un ideale in cui l’apparenza dell’armonia passa dal possesso di beni materiali e nell’assenza di attenzioni autenticamente sentimentali. Entrambe palesano l’innamoramento (che per la zitella è come se esistesse talmente è idealizzato) di un uccello in gabbia che pretenderebbe di cantare non per raggia (rabbia mossa da invidia), ma per amore nei confronti del proprio carceriere.

La terza è, pur sposata, diversa. Anche suo marito fa gli straordinari per la famiglia, non le fa mancare niente e, anzi, torna a casa con un doppio giro di perle tutto per lei. Tuttavia, in lei – che conosce i collettivi femministi, che ammira l’intenzione di quelle donne di parlare «dei loro problemi, tutti i problemi, anche quelli… diciamo… va… privati» – e nella sua coscienza qualcosa inizia ad agitarsi con calma e senza sosta. Prima sommessamente, quasi intimorita dalla convinta decisione delle altre due donne con cui sta conversando, poi con crescente determinazione, «comincia a sentire dentro di sé un desiderio di indipendenza, comincia a non sopportare più la subordinazione nei confronti del marito, vuole trovarsi un lavoro, comincia la sua rivoluzione. Troverà la felicità quando avrà il coraggio di abbandonare la sua gabbia».

Nonostante un plot prevedibile, una regia lineare e frontale e un accompagnamento musicale di ricercata semplicità, caratterizzato come fil rouge da Quando m’innamoro cantata da Anna Identici, è con superbia maestria e suggestive inflessioni dialettali che Roberta Amato, Giorgia Boscarino e Luana Toscano gestiscono le sfumatura dilemmatiche dell’essere femminile. Da una parte, chi denigra altre donne perché – rivoluzionarie – anelano la felicità e non il matrimonio o la dispensa sempre piena; dall’altra, chi – letto e scoperto che il mondo sta andando avanti – sembra parafrasare il foscoliano spirto guerrier ch’entro mi rugge, ossia il desiderio opposto e contrario di non voler essere più comandata da nessuno, la pretesa di rispetto e libertà attraverso il lavoro e l’indipendenza, non più il semplice e patriarcale accudimento; dunque, il perentorio riconoscimento di come se è vero che la donna dovrà sapersi tenere l’uomo, altrettanto vero sarà che anche l’uomo dovrà meritarsi la donna.

Un messaggio, purtroppo, di anacronistica attualità.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno del Fringe Festival Roma
La Pelanda – Ex Mattatoio
Piazza Orazio Giustiniani 4

Attesa
da un’idea di Elena Oliva
drammaturgie e scene Dino Lombardo
con Alessio Esposito, Elena Oliva
produzione Madiel

Casella 17
di Diana Ripani, Elisa Massari
regia Diana Ripani
con Elisa Massari
video Alberto Dezi

Il signor dopodomani
di Domenico Loddo
con Stefano Cutrupi
regia Roberto Zorn Bonaventura

La felicità
di Madè
con Roberta Amato, Giorgia Boscarino, Luana Toscano
regia Nicola Alberto Orofino