Il lato oscuro del Pop

Leggero e non irriverente, Trouble di Gus Van Sant è uno spettacolo debole nel rappresentare l’epopea di uno dei più geniali artisti del XX secolo.

Siamo in quella che può unanimemente essere definita la capitale mondiale dell’arte contemporanea nel secondo dopoguerra, New York. Il rinnovamento artistico è febbrile, la nuova generazione di artisti radicale: la sperimentazione si riversa in ogni modalità espressiva e la contaminazione di generi e tecniche produce idee che investono il rapporto dell’arte con il mercato e con la società dei consumi e che giungono a mettere definitivamente in crisi la relazione tra rappresentazione e figurazione estetica.

Le due direttrici su cui questa rivoluzione si sta svolgendo – e su cui Trouble inizialmente indugia – sono, in particolare, la Pop Art e l’Espressionismo Astratto. Gli orizzonti sono inconciliabili, la scena americana, che ha ormai surclassato le avanguardie europee di inizio Novecento, si “spacca” tra il principio (warholiano) della consapevole adesione alle logiche mercantilistiche e la polemica dei vari Pollock, dell’action painting e del color-field, che aveva uno dei suoi maggiori sostenitori nel critico d’arte Clement Greenberg, presentato come principale antagonista del nostro eroe.

Dismessa la carica dirompente del Dadaismo a cui si era inizialmente ispirato, Warhol fu padre e mentore della Pop Art e oltrepassò le “fortune” dell’Espressionismo Astratto, agganciando il proprio successo al cosiddetto “mitismo” dello star system hollywoodiano e televisivo. La sua stessa esistenza fu dedita al totale narcisismo, alla celebrazione del proprio personaggio, al trionfo mediatico, alla capacità di far assumere valore artistico (ed economico) alle proprie opere “seriali” e realizzate come in una catena di montaggio – come produzione di massa – semplicemente apponendo la propria firma.

Nel campo dell’arte provò di tutto (regista cinematografico sperimentale, produttore musicale, oltre che artista “figurativo”) e il suo nome fu strettamente legato a quello della Factory, studio di produzione, punto di ritrovo per artisti e luogo di svolgimento di feste “memorabili”. Il tentativo di omicidio da parte della controversa Valerie Solanas incarnò un momento di svolta, con Warhol sempre meno presente sulla scena pubblica e “deluso” dal fatto che nello stesso periodo i media avessero dovuto occuparsi di qualcosa di più importante di lui (l’assassinio di Bob Kennedy). Poi la morte e il sole del successo che non smette di “baciarlo”. In sintesi, è questa la vicenda che Trouble racconta.

La scena è quella di un musical, una forma teatrale popular che appare adeguata rispetto al “carattere” del protagonista, ma un po’ riduttiva rispetto alle potenzialità della produzione messa a disposizione del regista Palma d’oro a Cannes.

Gus Van Sant va infatti alla ricerca di un’opera centrata sulla restituzione dei punti di sutura tra il pubblico e il privato del genio figlio di immigrati polacchi, ammesso che i due aspetti possano essere distinti, e si affida a un giovane cast, apparso sufficientemente affiatato nei numerosi momenti corali. Le musiche composte da Paulo Furtado e i testi del regista statunitense completano un’opera complessivamente godibile, ma che riduce la complessa personalità dei gigante della Pop Art a un novello Alice nel paese delle meraviglie, il cui sguardo sognante e i cui modi sempre fanciulleschi sembrano essere travolti da eventi incontrollabili e da un candore sconfortante.

La realtà era ben diversa perché Warhol fu tutt’altro che un ingenuo. L’iscrizione delle sue opere nel circuito del mercato si mosse in parallelo alla sua smisurata ambizione di (auto)mitizzazione. La critica sociale e politica nell’opera di Warhol è riscontrabile, ma – come si usa dire – “a sua insaputa” perché l’anticonformismo della sua esperienza personale e l’ironia delle sue opere emergono “necessariamente” come l’altra faccia di quel sistema commerciale e culturale nel quale Warhol si era immerso con coscienza e genialità. Se Jasper Johns aveva manifestato una chiara volontà di opposizione all’industria culturale capitalistica e massificata, Warhol non ebbe mai l’intenzione di criticare e opporsi alle dinamiche del consumismo. La sua fu un’adesione cosciente, un’arte “cinica” capace di inserirsi nelle dinamiche del mercato e di sfruttarle a proprio vantaggio economico e celebrativo.

Il finale è paradigmatico della superficialità e del manierismo dell’operazione di Van Sant – la quale, inoltre, tende pericolosamente a enfatizzare alcune affermazioni tipiche dell’American Dream (citiamo a memoria, “puoi fare tutto quello in cui credi veramente”) – con Andy Warhol e Truman Capote, la cui relazione è stata recentemente riscoperta in seguito alla pubblicazione delle loro conversazioni intime, che si ritrovano in paradiso alla ricerca di bar gay in cui folleggiare.

Fare di Warhol il rappresentante di un’intera epoca piegata su patemi adolescenziali e comportamenti queer lascia perplessi. In quest’ottica, passa in secondo piano la prima parte, più centrata sulla questione dell’arte e incarnata dal conflitto tra Warhol e Greenberg e acquista nuova, negativa luce anche la scelta banalizzante del linguaggio musicale, così come scontata risulta la scenografia costruita con opere pop e, nella seconda metà dello spettacolo, dominata dalla scritta gigante ANDY.

Il gioco inscenato da Van Sant risulta intellettualmente scadente e manca del tutto la statura di colui che fu in grado di fondare il “vocabolario” iconico del XX secolo attraverso la nuda e “indifferente” esposizione delle immagini e dei gesti della vita quotidiana.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del RomaEuropa Festival
Teatro Argentina
Largo di Torre Argentina, 52, Roma
9 Ottobre 2021, 19:00

Trouble
testo, musica e regia Gus Van Sant
con Carolina Amaral, Diogo Fernandes, Francisco Monteiro, Helena Caldeira, João Gouveia, Lucas Dutra, Martim Martins, Miguel Amorim, Valdemar Brito
collaborazione artistica e drammaturgia John Romão
direzione musicale Paulo Furtado / The Legendary Tigerman
direzione vocale João Henriques
set design José Capela con l’assistenza di António Pedro Faria e con le immagini create da José Carlos Duarte
light design Rui Monteiro
ritratti Bruno Simão
costumi Joyce Doret
sound design João Neves
supporto coreografico Sónia Baptista
tecnico del suono Rui Antunes
direttore di palco Inês Carvalho e Lemos
direttore tecnico Gi Carvalho
produzione esecutiva Francisca Aires
produzione BoCA (Lisbon)
co-produzione National Theatre D. Maria II, deSingel, Romaeuropa Festival, Onassis Foundation, Kampnagel, La Comédie de Reims, Teatro Calderón
supporto Teatro Thalia, Suspenso