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Tuccio Guicciardini, tra le prove del secondo studio del suo nuovo spettacolo e la direzione artistica del Festival che si sta tenendo a San Gimignano, trova il tempo per raccontare ai lettori di Persinsala non solamente il suo nuovo progetto come regista, ma anche le tante novità che interesseranno Orizzonti Verticali dal prossimo anno. E come nuovo Presidente di Fondazione Fabbrica Europa, dà il suo parere anche sulla Riforma del Fus del 2014: «L’accentramento quando significhi, come nel caso di OV e Fondazione Fabbrica Europa, diminuire gli sprechi e raddoppiare le forze, è sicuramente positivo. Ma se alla base delle scelte di finanziamento ci sono solo i numeri, è ovvio che tale posizione andrà a scapito della qualità» e aggiunge: «Non sono d’accordo con quelli che sostengono che non si possa giudicare la qualità di un lavoro teatrale. Esistono i critici, o no?»

Come nasce l’idea di puntare su un borgo come San Gimignano per un Festival teatrale?
Tuccio Guicciardini: «L’idea teatrale nasce da radici affettive. Qui, alla fine degli anni 60, si è formato il Gruppo della Rocca, la cui prima idea nacque proprio nella Rocca di Montestaffoli, a San Gimignano. Io ero molto piccolo ma ricordo quelle prime riunioni, organizzate anche da mio padre, Roberto Guicciardini (regista e proprietario della Rocca, n.d.g.). E proprio questa idea dell’incontro generazionale torna in Orizzonti Verticali. In secondo luogo perché la mia Compagnia, Giardino Chiuso, ha qui la propria sede. Inoltre, a parte i legami storici e affettivi con il borgo, abbiamo scelto San Gimignano perché logisticamente è circondato dalle mura ma è anche attraversato dalla Via Francigena. È, quindi, uno spazio in un certo senso chiuso, che costringe gli artisti ospiti del Festival a incontrarsi, dialogare e, forse, perfino a scontrarsi. Ma, allo stesso tempo, la Francigena, simbolicamente, è sbocco verso altri luoghi di pensiero e creatività».

Il sottotitolo del Festival, Orizzonti Verticali, è Generazioni a confronto. Da quali esigenze nasce questo indirizzo artistico?
T. G.: «Volevamo capire, a cinquant’anni dal Convegno promosso dalla generazione del Manifesto di Ivrea (Per un convegno sul nuovo teatro, pubblicato da Franco Quadri sulla rivista Sipario nel 1966, n.d.g.), se fosse ancora possibile un confronto tra gli artisti in un momento che appare molto confuso. Mi sembra si avverta la mancanza di una memoria storica, quasi che la mia generazione – quella nata negli anni 60 – abbia operato una frattura totale con il passato. Eppure, senza la coscienza del passato, che si può anche contestare e superare, credo sia impossibile costruire solide basi per il presente e il futuro».

Può spiegare meglio la liaison tra Orizzonti Verticali e Fondazione Fabbrica Europa? E quale sarà il suo ruolo?
T. G.: «Personalmente, sono quasi vent’anni che collaboro con Fabbrica Europa in vari settori, dall’organizzazione alla creazione artistica. Il connubio che si è stretto quest’anno – in virtù anche della precedente collaborazione tra OV e la Fondazione, che ci ha sempre proposto degli spettacoli per la nostra manifestazione, soprattutto di danza – nasce dal fatto che la Compagnia Giardino Chiuso è entrata come socio fondatore in Fabbrica Europa, portando come “dote” Orizzonti Verticali e il Teatro dei Leggieri di San Gimignano, dove siamo residenti. A questo punto, come Fondazione, abbiamo partecipato e vinto il bando per l’accreditamento come Ente di rilevanza regionale dello spettacolo dal vivo. Il passo successivo sarà spiegare che Fabbrica Europa – vista essenzialmente come promotrice del Festival omonimo e, geograficamente, come Ente fiorentino – amplierà i propri orizzonti. Oltre al Festival, che continuerà a essere l’attività di punta, la Fondazione – grazie al riconoscimento ottenuto – dovrà coordinarsi con tutte le realtà territoriali, da Siena a Livorno passando per Anghiari, allargando le proprie aree di intervento non solamente a livello geografico ma anche di mission, occupandosi di residenze, laboratori e altri Festival. E, venendo a me, io, come nuovo Presidente di Fondazione Fabbrica Europa, porterò avanti, com’è ovvio, un progetto di ampliamento degli orizzonti, in tutti i sensi».

Come direttore artistico e regista cosa pensa del sistema della distribuzione teatrale in Toscana, soprattutto quando si considerino le Compagnie giovani e gli spettacoli contemporanei?
T. G.: «Attualmente c’è un’inflazione produttiva, spesso attuata con mezzi economici limitati, che non ha seguito. Può capitare che uno spettacolo non faccia più di due o tre repliche. Purtroppo, manca ancora un sistema virtuoso che favorisca la circuitazione. Spesso si gioca sugli scambi, ma è una scelta che non premia. Perché può capitare che due direttori artistici vedano le produzioni l’uno dell’altro e siano convinti di portarle nei propri teatri, però – di base – le scelte dovrebbero essere sempre disinteressate. Altrimenti si rischia di creare dei circuiti chiusi, come quelli dei Teatri Stabili che, fino a poco tempo fa, si scambiavano tra loro gli spettacoli senza mai aprirsi verso il nuovo, il meno conosciuto. Al contrario, penso che sia auspicabile rompere questi meccanismi, anche se non penso sia fattibile farlo in tempi brevi. Del resto non vorrei che la mia risposta fosse letta come una critica all’operato teatrale, quanto come uno stimolo al confronto generazionale esperito anche come commistione di linguaggi. In parole semplici, nei limiti di un disegno artistico preciso di teatro e di danza, mescolare le poetiche e le discipline può facilitare la scoperta da parte del pubblico, ma anche dell’operatore culturale».

Cosa pensa della Riforma del Fus, anche dopo la sentenza del Tar del Lazio?
T. G.: «Credo che allontanarsi dalla pratica del finanziamento a pioggia per concentrare le risorse sia utile a dare nuovamente dignità a questo mestiere, anche con retribuzioni e mezzi adeguati. Il problema, però, è come sono gestiti i fondi. Se questa concentrazione va a scapito di voci interessanti, o giovani, quali I Macelli a Certaldo, o altre realtà, c’è qualcosa che non funziona. Il problema è l’aver premiato la quantità. L’accentramento quando significhi, come nel caso di OV e Fondazione Fabbrica Europa, diminuire gli sprechi e raddoppiare le forze, è sicuramente positivo. Ma se alla base delle scelte di finanziamento ci sono solo i numeri, è ovvio che tale posizione andrà a scapito della qualità. E io non sono d’accordo con quelli che sostengono che non si possa giudicare la qualità di un lavoro teatrale. Esistono i critici, o no?».

Molti operatori e artisti affermano che l’unico referente dell’artista è il pubblico. Mentre i critici, dalla loro parte, paiono sempre più obbligati alla compiacenza. Lei crede ancora nel ruolo del critico?
T. G.: «Secondo me, il critico deve assumersi la responsabilità di ciò che scrive. E avere una propria funzione. Altrimenti chiunque farebbe qualsiasi cosa. Ovviamente, il pubblico ha il libero arbitrio, ossia la responsabilità di scegliere a quale spettacolo assistere, giudicandolo in base al proprio gusto, fischiandolo o applaudendolo. Emettere però un giudizio di qualità in base alle scelte degli spettatori, o chiedere loro di dare pagelle, non credo sia corretto. E il timore di alcuni critici in Italia di scrivere negativamente su uno spettacolo credo sia immotivato. Al contrario, i critici dovrebbero fornire gli strumenti, un alfabeto dell’arte, ai propri lettori; e giudicare uno spettacolo, dal di fuori, per aiutare l’artista stesso a vederlo da un’altra ottica. E poi, leggere alcuni pezzi di critica, in passato ma anche al presente, era ed è davvero un piacere. Forse non a caso, quest’anno, volevo proporre come idea di base per gli incontri tra critici, giornalisti, operatori e pubblico, ognuno al suo posto. Purtroppo me l’hanno bocciata».

Quest’anno, a Orizzonti Verticali, presenta il secondo studio sul suo nuovo lavoro, L’insolito caso di un avvocato e del suo committente. Vuole parlarcene?
T. G.: «È, innanzi tutto, una sfida, in quanto tratto da Giustizia di Dürrenmatt. L’ho scelto non solamente perché come romanzo mi è piaciuto molto, ma anche perché lo trovo estremamente attuale. Inoltre, c’era questo personaggio vecchissimo – Kohler – che, secondo me, andava a pennello a Virginio Gazzolo che, infatti, lo interpreterà. Come regista trovavo interessante la possibilità di sondare le varie realtà, indagare su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Come sia possibile manovrare uomini e situazioni al punto da modificare la verità dei fatti. Inoltre, non va dimenticato che nel prologo si racconta l’intera vicenda e, quindi, non si tratta di un giallo classico, dato che si sa da subito chi sia l’assassino. Però, non si conosce il movente. E, a mano a mano che il racconto procede, il lettore – o lo spettatore – comincia a simpatizzare proprio con il carnefice. Abbiamo presentato un primo studio a dicembre per capire se l’idea potesse funzionare e ci ha convinti perché il testo ha una sua densità, indiscutibile. Scenicamente, però, mancavano alcuni passaggi che, in questo secondo studio, penso si siano risolti. Sabato vedremo».