Tra le fessure delle veneziane del Teatro i, Dario De Luca mostra al pubblico milanese la tragedia degli uomini d’onore.


Il campo di battaglia non è Troia, ma un’agenzia calabrese di pompe funebri; in palio non ci sono le armi di Achille, ma il potere di capobastone; al posto dei versi greci, la parlata dialettale. Eppure Aiace è lo stesso eroe tragico dell’Iliade: offeso, folle d’ira, pronto a uccidere per pareggiare i conti e a uccidersi per non perdere l’onore, furioso con chi a lui ha preferito Ulisse, ma anche con chi gli ha insegnato questo modo di vivere, con una madre che non è mai stata capace di fare un regalo.

Una sola scena, impietosamente aperta davanti agli spettatori, diventa teatro di più delitti; la stanza dove i morti vengono preparati alla loro ultima comparsa in pubblico è la trappola in cui i vivi sono torturati e uccisi. Due bare: una grossa, imponente e pesante; l’altra piccola, bianca, morbida e quasi dolce. Un corvo impagliato, un tavolo di metallo, una radio e un albero di Natale con tanto di lucine colorate intermittenti. Gli attori, tutti uomini, si muovono, gesticolano, ridono, più spesso urlano, si insultano, si minacciano e, quando è necessario, sparano, con un’autenticità fatta di sudore ed espressioni gergali.

Allo spettatore non si risparmia niente, nessun orrore, nessuna delusione. Tutto è così reale che può essere accettato solo se visto, o meglio spiato, attraverso le fessure delle veneziane abbassate, grazie a un’efficace intuizione, tra il palco e la platea.

Gradualmente, il tragico è svelato. Le scene, senza continuità temporale, cinematograficamente intervallate da transizioni di buio, trasformano la piccola bara immacolata in un nascondiglio per le buste di coca, le catenine d’oro in un segno di appartenenza, la già lugubre stanza in un covo di mafiosi.

Mentre il teatro si riempie dell’odore di polvere da sparo, Aiace compie la sua vendetta, crudele, senza scrupoli; tortura Ulisse, lo umilia, insulta la sua impotenza, lo rende immobile e muto, lo porta al limite della sopravvivenza, giocando a essere allo stesso tempo dio e animale.

Un dio come Agamennone, il capo che cerca di emulare nascondendosi dietro agli stessi occhiali da sole – un capo ingannatore, capace di abbandonarsi al racconto dei suoi sogni (in una purtroppo mal riuscita scena surreale: rivolto al pubblico e illuminato da un faro rosa) e, poco dopo, di affermare che se una foglia non può muoversi senza che dio lo sappia, noi allora siamo tutti foglie. E un animale come il corvo immobile dietro di lui, come i porci che allevava suo padre, da ingozzare e sgozzare, come le galline di cui imita il verso ricordando l’infanzia. Sì, perché mentre impazza e si sfoga, morde le orecchie di Ulisse e lo soffoca nel cellofan, Aiace si confessa, ci confessa come le sue scelte siano sempre state obbligate e la sua vita mai abbastanza serena. In un calabrese a volte poco comprensibile, il protagonista ricorda le tappe importanti: la prima rapina, i diciotto anni, la fedeltà ad Agamennone, le avventure, i dolori. Perché Aiace, nonostante tutto, è l’eroe, è impulsivo e crudele ma soprattutto disperato, è umano e, alla fine, risparmia Ulisse e si uccide, quasi con fierezza, negando così a quelli che erano stati i suoi compagni il piacere della vendetta. Aiace è allo stesso tempo il carnefice e la vittima, anche se questa contraddizione, così ben costruita nella sceneggiatura, perde potenza a causa del costume e del trucco, che rendono il personaggio antipatico.

Freneticamente la vicenda procede, si svolge, la storia acquista chiarezza e profondità, i simboli si accumulano, i personaggi in carne e ossa sono sostituiti da beffardi cadaveri di cartapesta, la tensione sale e poi si scioglie, così che il finale a sorpresa giocato da De Luca coglie pienamente il segno.

La storia è sempre la stessa, è un gatto che si mangia la coda, è una scena che si ripete uguale, e mentre la voce di Gianni Morandi canta rassicurante e gli attori si inchinano, arriva l’agghiacciante consapevolezza che noi, in ogni caso, siamo i voyeur immobili dall’altra parte delle veneziane.

Lo spettacolo continua:
Teatro i
via Gaudenzio Ferrari 11 – Milano
fino a sabato 30, ore 21.00

U Tingiutu. Un Aiace di Calabria.
ideazione, testo e regia Dario de Luca
musiche originali Gianfranco De Franco, Gennaro de Rosa
scene, costumi e oggetti di scena Rita Zangari
con Dario De Luca, Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Fabio Pellicori, Marco Silani
assistenza alla regia Isabella Di Rosa
fantocci Teatro delle Rane
direzione tecnica e audio Gennaro Dolce
luci Gaetano Bonofiglio
foto di scena Angelo Maggio
organizzazione e distribuzione Settimio Pisano
produzione Scena Verticale
col sostegno di Calabria Palcoscenico – Regione Calabria
testo finalista al Premio Riccione per il Teatro 2009