Un Čechov brechtiano senza infamia

Al Teatro Studio Uno è andata in scena una versione non canonica de Il Gabbiano, che convince per molti aspetti; perplime per pochi altri.

Opera immortale della letteratura occidentale, capace di esprimere al suo interno tutto il travaglio del passaggio storico alla modernità, cogliendone l’incedere irreversibile della vanificazione dei vecchi valori e l’inquietudine dell’ignoto che si aprì all’alba del Novecento, Il Gabbiano di Anton Čechov non smette tutt’oggi di parlare al grande pubblico, pur scritto nel lontano 1896. All’epoca, Il Gabbiano dovette attendere diversi anni per avere successo e venire riconosciuto come una pietra miliare della letteratura russa e mondiale, tanto che subì i giudizi ben poco lusinghieri sia del pubblico che di illustri colleghi (come per esempio quelli di Lev Tolstoj).

Il dramma dello scrittore russo coglie ancora oggi non solo le peripezie psicologiche ed esistenziali della classe medio-borghese, ma ne mette in luce il declino che si sarebbe esaurito compiutamente con l’avvento del nuovo secolo, con la Rivoluzione d’Ottobre che come una mareggiata avrebbe sconvolto la vita di quella stessa classe. È come se i personaggi di Čechov avessero, già dentro l’anima e il pensiero,  quella rivoluzione, quel capovolgimento di paradigma trasmettendo un senso di malinconia e di frustrazione che riesce ad essere efficace anche nel nostro secolo. Per tutte queste ragioni, portare in scena un’opera del genere non è affatto facile; riesce l’operazione, anche se con specifici limiti, a Gianluca Merolli, che dirige una versione sui generis del dramma cecoviano, dal titolo Un Gabbiano. Un merito dello spettacolo è l’evidente volontà di svecchiare l’opera, ma l’interrogativo che compromette da subito la sua riuscita è: un capolavoro come Il Gabbiano ha forse necessità di venire svecchiato? Ammesso ciò, l’altro interrogativo è quale debba essere l’operazione di svecchiamento del testo: Merolli opta per l’introduzione di scene stile burlesque, dalla pantomima a dimensioni brechtiane, tra straniamenti e atmosfere tipiche del teatro di Weimar.

Il tentativo di tradurre Čechov nella lingua di Brecht però non riesce, come falliscono anche gli elementi di sovraccarico espressivo, quasi a voler oltraggiare il realismo e il naturalismo čechoviani che già nella loro lucidità erano i migliori interpreti della nevrosi epocale vissuta dai personaggi. Detto questo, il giudizio sullo spettacolo è tutto sommato positivo, e le ragioni sono tante, soprattutto perché le scene dove il regista si mantiene fedele al testo, senza fronzoli o eccessi scenici, sono ottime; il disegno luci, di finissimo livello tecnico e di grande potenza visiva, è l’unico livello dello spettacolo che ha ben accolto il tentativo di rilettura del classico.

Ma il merito maggiore dello spettacolo è l’interpretazione degli attori: un cast di ottimi interpreti capaci da un lato di restituire la nevrosi del gruppo ristretto di personaggi del dramma russo, dall’altro di rispettare la linea imposta dalla rilettura brechtiana: a tratti eccessivi, esagerati, al di sopra delle righe, ma capaci di rispondere alle esigenze che lo spettacolo impone. Anita Bartolucci, nei panni di Irina, è una matrigna lasciva, debole quanto violenta nei gesti e nelle parole, mentre Francesca Golia riesce a incarnare, esprimendone tutte le tensioni e le vibrazioni, lo straordinario personaggio di Nina, al confine tra pubertà e ingresso all’età adulta, tra le illusioni infantili e lo scontro con la cruda realtà della vita, tra immaturità provinciale e perdizione conseguita tentando di inseguire desideri di fama. Così come accade allo stesso Merolli, che oltre a essere regista è anche interprete di Kostantin: a differenza di Nina, quest’ultimo raggiunge il suo obiettivo di scrittore di successo, ma è lì a dimostrarci che tanto il fallimento che il veder realizzare le proprie ambizioni non sono che due facce della stessa medaglia, quella della tragica insensatezza di ogni nostro peregrinare alla ricerca di un senso su questa terra. Nina e Kostantin sono metafora di quel sofferto passaggio epocale che la Russia dei primi del Novecento stava per vivere sulla pelle della propria tradizione.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro SalaUno
Piazza di Porta San Giovanni, 10 – Roma
dal 9 al 19 ottobre, ore 21.00

Andrea Schiavo presenta
Un Gabbiano
da Il Gabbiano di Anton Čechov
adattamento e regia Gianluca Merolli
con Gianluca Merolli, Ivan Alovisio, Anita Bartolucci, Francesca Golia, Giulia Maulucci, Fabio Pasquini, Graziano Piazza