Una nuova polis e parlamento teatrale nel XXI secolo

La compagnia Kamikaze porta in scena fino al 7 ottobre un riadattamento del celebre dramma di Ibsen, in uno spettacolo che è politica, etica, vita e straniamento brechtiano, in una forma di teatro nuova e incandescente, una vera e propria agora, un parlamento teatrale del popolo.

 

 

Un nemico del popolo, di Henrik Ibsen, nella versione di Àlex Rigola, è uno spettacolo che ha fatto scalpore e di cui si parla molto a Madrid, città contraddistinta da una scena teatrale eterogenea e variopinta. La Compagnia Kamikaze è stata fondata nel 2000 da Miguel del Arco e Aitor Tejada, con il forte proposito di produrre e fare arte a 360° attraverso progetti teatrali, cinematografici – televisivi e culturali caratterizzati da una grande attenzione alla contemporaneità, alla cittadinanza e ai bisogni di un pubblico eterogeneo in continuo cambiamento, cambiamento che d’altronde riflette la continua evoluzione (e involuzione) dell’essere umano nella società contemporanea del nostro secolo: «Per me, la versione contemporanea / l’innovazione teatrale non è vestire un Amleto con i jeans, ma è (capire) che Amleto sta dicendo delle cose che ti toccano direttamente come cittadino del XXI secolo», ci ricorda Miguel Del Arco in un claim ben evidente sul sito web del teatro.

La compagnia Kamikaze, sicuramente tra le più applaudite dal pubblico e conosciute dalla critica spagnola e non solo, vincitrice nel corso degli anni di numerosi premi (tra cui: Premio CERES per la migliore condotta imprenditoriale del Festival Internacional de Teatro Clásico de Mérida 2015; Premio Nazionale del Teatro 2017), dal 2016 ha la gestione e la direzione del Pavón. Il teatro fu costruito in art déco tra il 1924 e 1925, divenne centro vitale per la scena teatrale dell’epoca e, durante la guerra civile e la dittatura franchista, passò ad essere una sala polivalente (cinema, sala concerti, sala teatrale) completamente diversa da quella degli anni di apertura, prima di intraprendere diverse gestioni, chiusure e riaperture tra gli Anni Settanta e gli Anni Novanta, senza mai però trovare una propria identità. Oltre a questo, cambiò continuamente anche a livello architettonico con diversi lavori di ristrutturazione, in particolare quello voluto nel 1953 dall’architetto José Antonio Corrales Gutiérrez, che rifece la facciata in asfalto grigio secondo uno stile minimalista. Finalmente, tra il 2001 e il 2002, il teatro subì ulteriori lavori di ristrutturazione ad opera di Ignacio de las Casas Gómez che lo riportarono alla sua veste iniziale. Venne dunque prima affidato alla Compagnia Nazionale del Teatro Classico (CNTC) fino al 2015, per poi passare, come già anticipato, alla Compagnia Kamikaze nel 2016 con la direzione artistica di Miguel del Arco, Israel Elejalde, Aitor Tejada e Jordi Buxó.

Ma, come recita un vecchio proverbio «non è oro tutto quello che luccica» e i Kamikaze si resero conto ben presto che il teatro che gli era stato affidato presentava molti problemi, come afferma Aitor Tejada in un’intervista al El Pais a giugno 2018: «questo teatro non vale i soldi che paghiamo di affitto. Il deterioramento dell’edificio è evidente. È un teatro senza dotazione tecnica, con crepe e guasti, nel quale soffriamo per i continui problemi di energia elettrica» e che, a detta di Miguel del Arco, non ha mai ricevuto dalle amministrazioni pubbliche e dal comune la giusta attenzione ma solo «palabras, palabras y palabras». Effettivamente, risulterebbe difficile per chiunque pensare di portare avanti un teatro con dei problemi logistici così gravi che influiscono sulle casse del teatro, con un affitto annuale di 360 mila Euro e una copertura del comune di 150 mila Euro, che però, almeno a giugno 2017, era stata ricoperta solo in piccola parte. Per questo a fine stagione 2017/2018, i Kamikaze annunciarono l’abbandono del Teatro Pavón ed è proprio nella situazione di limbo e di non chiarezza a inizio stagione 2018/2019 che si inserisce lo spettacolo.

Dopo questo preambolo, si può davvero capire il senso dello spettacolo e si può entrare nel vivo del discorso: ogni spettatore ha ricevuto al suo ingresso a teatro un depliant – foglio di sala dello spettacolo, insieme ad un cartoncino verde con scritto SÌ ed un cartoncino rosso con scritto NO.

Nel foglio di sala essenziale e minimalista c’era scritto: «fino a che punto siamo liberi? A che prezzo? Ci autocensuriamo? Che valore ha il nostro voto? È legittimo votare pensando di più ai propri interessi che al bene comune? […] Quante volte ci è stato permesso di accettare un’ingiustizia pur di non perdere il nostro posto lavorativo o ferire una persona, o perdere una posizione o mettere a repentaglio la nostra vita? In cosa siamo capaci di tacere in cambio della sopravvivenza economica della nostra famiglia?». E mentre si entra in sala, non si può fare a meno di notare sei palloncini bianchi, issati in aria da un’asta che li tiene uniti, ognuno di loro con una lettera, che va a formare la parola ethiké. Questo e pochi altri elementi scenografici (una lavagna, un tavolo, delle sedie, una chitarra…) compongono la scena di uno spettacolo che ci appare fin dai primi istanti fortemente comunicativo, esuberante, irruente, come uno tsunami che non si riesce a fermare.

La scelta di inserire soltanto due musiche, suonate da Nao Albet, all’inizio e alla fine della pièce, ha qualcosa di brechtiano. E non per il significato in sé delle parole, ma piuttosto perché i pezzi musicali si trovano nei due momenti che aprono e chiudono, almeno simbolicamente, lo spettacolo, ma che aprono in noi uno squarcio, una ferita che porta alla riflessione e allo straniamento.

Si capisce quindi da subito la chiara connotazione etica e filosofica de Un nemico del popolo, soprattutto a fronte della dichiarazione provocatoria di abbandono del teatro fatta a giugno. E, tra agosto, settembre e ottobre, di riapertura del teatro, ancora in un clima di limbo nel quale non si capiscono bene le sorti e il destino della compagnia (che ha comunque programmato una stagione per il 2018/2019 nel Teatro Pavón), il pubblico è chiamato a votare in una agorà pubblica e in un clima di metateatro con degli attori che sono a fasi alterne sia i personaggi originali di Ibsen, sia i componenti della compagnia, sia esseri umani con le loro ansie e con le loro difficoltà interpersonali, in una continuo gioco di ruolo tra etica, ideologia e necessità di mantenere una posizione sociale e lavorativa, in una performance che è una rottura della quarta parete ma allo stesso tempo fonte di immedesimazione per il pubblico.

La prima domanda fatta dall’attrice Irene Escolar e dagli attori al pubblico è: «credete nella democrazia?» Il pubblico vota con le palette e i cinque attori contano velocemente i voti. Nella replica a cui abbiamo assistito 247 persone dicono di credere nella democrazia e 43 persone di non crederci. A questo punto, altra domanda provocatoria: «quindi, se credete nella democrazia, pensate che il teatro Kamikaze debba dire realmente quello che pensa ed essere ancora una volta sabotato dalle amministrazioni, o che, per continuare ad esistere, è meglio che stia in silenzio e continui lo spettacolo come se niente fosse?»

Gli spettatori si sentono partecipi ma allo stesso tempo confusi, perché già da queste prime domande, le persone iniziano a ragionare su quella che è la libertà di pensiero e di azione in una società capitalistica che calpesta i diritti dei lavoratori e dell’essere umano.

Con che coraggio una compagnia teatrale che riceve sovvenzioni pubbliche da un partito con ideali contrari ai propri può andare in scena, senza opporsi al sistema (in questo caso con uno spettacolo che parla apertamente di etica) pur di continuare a ricevere finanziamenti e continuare così la propria direzione artistica? Un nemico del popolo è un continuo e delicato parallelismo tra la trama originale e la situazione attuale della compagnia Kamikaze e la condizione dell’essere umano, diviso sempre tra etica e vita reale, tra buona e cattiva condotta, tra idealismo e precariato, tra giustizia e sicurezza economica, tra arte e vita, come d’altronde aveva capito bene Ibsen nel lontano 1882, quando scrisse il dramma.

Il Dottor Stockmann, (interpretato da Israel Elejalde, della direzione artistica del Kamikaze) vuole avvisare la cittadinanza che lo stabilimento termale in cui lavora, fonte di benessere e turismo per la piccola città, ha dell’acqua contaminata e pericolosa. Stockmann trova prima l’opposizione del sindaco nonché di suo fratello (nella versione di Rigola interpretata da Irene Escolar che diventa sorella e sindaca) in un gioco di boicottaggio della libertà di pensiero e di azione che lo portano ad essere odiato da tutta la comunità e ad essere odiato anche dagli stessi che prima lottavano insieme a lui.

Chi non ha mai subito, nella propria vita lavorativa, personale, familiare, una situazione simile? Chi non l’ha mai vista su altri? Chi non l’ha mai vista a livello politico? Àlex Rigola, che con questo spettacolo dimostra una forte indipendenza e libertà creativa e una ricerca di nuove forme teatrali, tenta, riuscendoci in pieno, a condividere con il pubblico il conflitto del dramma e dei personaggi, cercando di vedere come, quanto e in che forme gli attori si riflettono ed entrano in contatto con la realtà dei ruoli interpretati. Rigola sceglie un nuovo modo per farlo, con attori che sono prima di tutto persone divise tra l’etica e gli interessi personali, ma divise anche tra il loro personaggio da interpretare e il loro ruolo sociale di attori da conservare. Sono gli attori che ci interrogano o sono i personaggi di Ibsen a farlo? Un nemico del popolo è un viaggio onirico, ma purtroppo in realtà concreto, nella coscienza umana e nel senso di giustizia e libertà.

Gli spettatori, man mano che lo spettacolo va avanti, intervengono con proprie idee e commenti sull’etica, sulla giustizia, sulla libertà di espressione e sulla democrazia, sul sistema in Spagna; la situazione cambia in continuazione, fino ad arrivare a un monologo centrale ed illuminante del Dottor Stockmann / Israel Elejalde sul suffragio universale. Il monologo, detto dall’attore prima sul proscenio e poi in mezzo alla platea e letteralmente in faccia al pubblico, fa riflettere sul potere del suffragio universale, in senso positivo, certo, ma paradossalmente in senso negativo. Perché, se il suffragio universale è un diritto sacrosanto, non sempre la maggioranza ha la consapevolezza e la coscienza di cosa sia giusto e di cosa sia sbagliato, o ancor meglio, non sempre la maggioranza e il popolo può prendere decisioni sul bene comune. Dunque, il male maggiore è il suffragio universale, perché in fondo «la maggioranza non capisce nulla, la maggioranza non ha sempre ragione» e sarebbe utile, a fronte dell’ignoranza della gente, fare un esame preventivo per vedere se i votanti hanno realmente un interesse politico, perché il voto di una persona che si impegna politicamente o il voto di una persona che, pur non avendo un interesse politico specifico dedica del tempo a capire a cosa serve il suo voto e a chi lo deve rivolgere non può avere lo stesso valore di chi di chi vota a caso senza consapevolezza.

Ed infine, ultima domanda posta al pubblico: «credete nel suffragio universale?» 229 SÌ e 43 NO.

Ci si chiede se il pubblico avesse risposto alla stessa maniera se questa domanda fosse stata fatta prima del monologo di Stockmann e prima delle altre domande e dei successivi dibattiti…

Un nemico del popolo di Rigola dimostra una regia matura e ci riporta al concetto di Polis greca e di Agora, parola che non a caso è usata come un sottotitolo dello spettacolo, e lo fa coinvolgendo il pubblico in tematiche forti e attuali, seppure in realtà già concettualizzate dalla filosofia e da drammaturghi del passato. Non si tratta però di uno spettacolo di teatro dell’oppresso o di uno spettacolo di satira politica; si nota una chiara strutturazione e un accurato studio dell’arco drammatico e di come esso possa cambiare e destrutturarsi con l’intervento del pubblico, parte integrante e fondamentale della performance.

Si nota inoltre un’attenzione particolare ai rapporti umani tra i cinque personaggi, che si chiamano proprio come si chiamano gli attori – Irene Escolar, Israel Elejalde, Óscar la Fuente, Nao Albet e Francisco Reyes – e che sono sapientemente guidati dalla regia ma allo stesso tempo autonomi nelle proprie scelte d’improvvisazione estemporanea e di recitazione. Attori-personaggi che, in una linea sottile tra realtà e dramma, veicolano il proprio pensiero e si influenzano a vicenda proprio come accade nella vita reale, o meglio della democrazia attuale, o meglio ancora nella demagogia attuale…

Dunque, il teatro è realtà, il teatro è vita come non mai ne Un nemico del popolo. Ma il teatro, e dunque la vita, è anche etica e libertà di espressione? Questa corrispondenza tra teatro, libertà e vita è davvero possibile o è un’utopia che tutti noi ricerchiamo ma che talvolta sfioriamo soltanto?

 

Lo spettacolo continua
Teatro Pavón Kamikaze
Calle de Embajadores 9, Madrid
fino al 7 ottobre
da martedì a sabato ore 20.30
domenica ore 19.00

Un nemico del popolo
di Henrik Ibsen

regia Àlex Rigola
con Nao Albet, Israel Elejalde, Irene Escolar, Óscar de la Fuente, Francisco Reyes
scenografia Max Glaenzel
disegno luci Carlos Marquerie

 

El espectáculo continua
Teatro Pavón Kamikaze
Calle de Embajadores 9, Madrid
hasta el 7 de octubre
martes a sábado 20.30
domingo 19.00

Un enemigo del pueblo
de Henrik Ibsen

regía Àlex Rigola
con Nao Albet, Israel Elejalde, Irene Escolar, Óscar de la Fuente, Francisco Reyes
escenografía Glaenzel
iluminación Max Marquerie