E allora che farne?

Al teatro Fabbricone di Prato, il nuovo spettacolo di Massimiliano Civica, Un quaderno per l’inverno, incontra il pubblico. E incontro effettivamente è stato.

Il grande spazio vuoto del Teatro Fabbricone è come una landa desolata. Dal fondo avanzano due uomini. Si fermano immobili. Attendono: tempo per diventare personaggi. Inizio.
Arrivando con aspettative nate leggendo le note di sala si prova un grande spiazzamento: suggestionati dai discorsi sull’importanza della storia e dei personaggi, si aveva infatti pensato (chissà poi perché) a una scelta di trasparenza e di naturalismo della messinscena. Invece no.
In scena i due attori e i loro due personaggi, un tavolo, due sedie, gli oggetti strettamente necessari.
All’interno di un’impostazione essenziale, che si può ascrivere alla poetica di Civica, anche la recitazione non risulta naturalistica, ma sempre vagamente straniata, straniante, con strane pause, strane sospensioni, strane connessioni, con lievi punte di parodico e grottesco.

Nel grande spazio vuoto del Fabbricone presentare al pubblico degli abbonati un simile spettacolo è effettivamente qualcosa di avventuroso, un’azione funambolica: basta nulla e nel vuoto si rischia di precipitare. L’impresa è degna di nota ed è importante riconoscerla.
Nel fare teatro ci sono intenti che trascendono il singolo spettacolo, come la sfida di creare un teatro popolare d’arte (l’obiettivo del regista Massimiliano Civica), o la sfida per la singola replica (quella cui abbiamo assistito) d’incontrare il pubblico abbonato di uno Stabile, di presentargli un’opera formalmente difficile senza che accusi troppo il colpo, di fare in modo che lo spettatore la accolga e la segua nonostante il silenzio che incombe, lo straniamento della recitazione, lo spazio completamente nudo, l’illuminazione fissa.

L’appiglio, in una messinscena che potrebbe risultare allora troppo ostica, lo offre la drammaturgia originale di Armando Pirozzi: Un quaderno per l’inverno. Il testo ha qualcosa di grottesco e vagamente assurdo. I due personaggi seduti al tavolo suggeriscono da molto, molto, molto lontano personaggi beckettiani che parlano parlano e muoiono dentro.
Fuori di loro, sopra di loro, la poesia – l’assoluto – passa, come un’opportunità. Ma non c’è cambiamento, non c’è salvezza per loro grazie a essa. Non c’è rivoluzione nella loro vita, magari giusto una vaga consolazione, un sollievo, quando la poesia è effluvio dell’interiorità (fonte però che si prosciuga col mancare della situazione debordante che ha bisogno di essere espressa).
Quando al contrario si intenda la poesia come qualcosa di grande e salvifico, quello che vediamo in scena è la tristezza e la miseria di un essere umano che non vuole e non sa essere più di ciò che è, che non riesce a uscire, a sollevarsi dal pantano della sua esistenza misera, e che in fondo in fondo (cosa più grave) è tranquillo così, con una rassegnazione più di facciata che realmente dolorosa.

La storia raccontata è senza alcuna velleità, semplice – inteso in senso positivo. Ha un modo di trattare un tema come quello della poesia che definirenmo pulito – eppure non del tutto efficace e tagliente. Una sensazione questa che, però, potrebbe essere ricollegata alla performance degli attori. Con ciò riferendosi non allo stile della recitazione, quanto a una certa qualità – al livello e alla qualità dell’energia dispiegata in scena. In particolare, rispetto ai due blocchi temporali dello spettacolo, abbiamo visto, prima, soprattutto Astorri e, poi, Zacchini, non molto centrati.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Fabbricone

Via Targetti, 10/12 – Prato
fino a domenica 19 marzo

Un quaderno per l’inverno
di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Alberto Astorri e Luca Zacchini
costumi Daniela Salernitano
scene Luca Baldini
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello