Corsi e ricorsi storici

Teatro Cantiere FloridaAl Cantiere Florida di Firenze va in scena Una Bestia sulla Luna, racconto accorato e corale non solamente di un genocidio ma di ogni violenza – anche quella perpetrata tra le mura domestiche

Nonostante il negazionismo ancora imperante in Turchia – e forse giustificato dal fatto che ammettere il genocidio armeno, significherebbe delegittimare i padri della patria in un Paese fortemente nazionalista e che, proprio grazie ai militari e ad Atatürk, fece enormi passi in avanti a livello di diritti sociali e politici, laicizzandosi; è ormai fatto generalmente acclarato (per quanto possa esistere una verità storica, unica e incontrovertibile, in un mondo dove impera il relativismo) che la popolazione armena presente in Turchia fu decimata a partire dal 1915 dall’Impero ottomano, con la complicità dei tedeschi guidati dal Kaiser Guglielmo II°.
Questa la premessa. Da qui parte lo spettacolo: dalla fuga dall’Europa verso gli Stati Uniti di una quindicenne che, grazie a un’organizzazione filantropica, arriva a Milwaukee – città industriale del Midwest che accoglierà, fino agli anni 50, immigrati provenienti soprattutto dall’Europa centrale. Ma qui, ad aspettarla, non c’è una famiglia adottiva, o qualche parente già insediatosi nel Paese a stelle e strisce, bensì un marito per procura, armeno, di stampo conservatore, con idee patriarcali e modi da padre-padrone. Per colmo d’ironia (e qui sta la relatività della storia), mentre Atatürk in quegli anni riconosceva la parità dei sessi in Turchia, la giovane armena – fuggita dal genocidio – si ritrova in un Paese considerato baluardo della democrazia, in balia di un uomo, sconosciuto, che pretende di essersi comprato una serva, un’amante e una futura madre per la sua (di lui solamente, in quanto maschio) prole.
La costruzione dei personaggi, credibile (si pensi che negli anni 20 del Novecento, non era certamente strano sposarsi a quindici anni e persino oggi, in molti Paesi, è ancora in uso prendersi una sposa bambina), si accompagna a una loro crescita psicologica, grazie all’interazione, a quel dialogo che la protagonista femminile, Seta, non smette mai di intessere con il marito – uno sconosciuto, con il quale sa che dovrà convivere per la vita. La violenza iniziale, la sopraffazione, la mancanza di comunicazione, col passare degli anni (il succedersi delle scene, di stampo filmico, permettere un procedere dell’azione spalmato su un lungo periodo temporale) si trasforma in calma sopportazione, in presa di coscienza della comune sofferenza (anche il marito ha perso tutta la famiglia durante il genocidio) e del fatto di essere sopravvissuti. Sopravvissuti non per ricreare le medesime strutture del Paese di origine, ma una nuova famiglia che, come gli Stati Uniti (anche se ormai se ne sono dimenticati), deve mescolare tradizioni, culture, religioni, lingue e costumi. L’arrivo del ragazzino italiano, che sarà adottato dai coniugi, è forse un cliché ma serve a dare peso a quell’utopia del melting pot che vediamo tutti i giorni beffeggiata, derisa se non avversata (negli States ma anche qui da noi). Del resto, difficilmente i popoli imparano dai propri o dagli altrui errori: se così non fosse, oggi i palestinesi avrebbero il loro Stato, e l’Arabia Saudita non starebbe infiammando lo Yemen.
Ottima prova dell’intero cast, con un personaggio narrante che rimanda al Proust de La Recherche e, su tutti, una Elisabetta Pozzi misurata, credibile, totalmente in parte.
Unico neo le proiezioni delle cifre del genocidio e dei morti. Mentre le fotografie della famiglia, o meglio del progressivo avvicinamento a una nuova idea di famiglia sono ben giustificate dal fatto che il protagonista maschile, in quanto fotografo, immortali via via i momenti cardine del suo rapporto con Seta, e questi scatti siano proiettati anche su parete – quasi a immortalare lo scorrere del tempo – le immagini del genocidio appaiono superflue, ridondanti ed extradiegetiche in maniera non conseguente. Bastano i racconti dei protagonisti a ricostruire quelle immagini di orrore nella mente dello spettatore. Basta la partecipata interpretazione di Fulvio Pepe ed Elisabetta Pozzi a emozionare. Basta il teatro a ricreare universi di senso.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Cantiere Florida
via Pisana, 111r – Firenze
sabato 17 novembre, ore 21.00

Il Teatro Cantiere Florida ha presentato:
Una Bestia sulla Luna
di Richard Kalinoski
traduzione Beppe Chierici
regia Andrea Chiodi
con Elisabetta Pozzi, Fulvio Pepe, Alberto Mancioppi e Luigi Bignone
scene Matteo Patrucco
luci e video Cesare Agoni
costumi Ilaria Ariemme
musiche Daniele D’Angelo
produzione CTB Centro Teatrale Bresciano e Fondazione Teatro Due di Parma

www.teatroflorida.it