Ritratti d’autore

Andata in scena al Teatro Goldoni di Venezia nel 1934, dopo più di 80 anni torna dal 29 settembre 2017, in un nuovo allestimento del Teatro La Fenice, Cefalo e Procri, di Ernst Krenek, in questa edizione con due inedite composizioni di Silvia Colasanti.
Per l’occasione, Persinsala ha intervistato il regista Valentino Villa.

Questa è la sua prima regia d’opera. Quali sono le principali differenze che ha riscontrato rispetto alle sue regie drammaturgiche? Quale la maggiore difficoltà?
Valentino Villa: «Confrontando i due tipi di esperienze, direi che la differenza maggiore risiede nella presenza di una partitura musicale. La partitura all’inizio può sembrare un limite ma poi si coglie la sua importanza di essere occasione di approfondimento e anche guida alla costruzione della messinscena. Nel teatro drammaturgico la partitura è il risultato finale, ed è ciò che io costruisco.
In questa occasione nello specifico direi che non ho trovato più o meno difficoltà rispetto alla mia attività più tradizionale, soprattutto per il rapporto che si è creato con i cantanti e il direttore, tutti molto collaborativi. Il risultato è stato un lavoro di squadra».

Per questo lavoro è stato importante il contributo artistico e creativo di Silvia Colasanti. In che modo l’opera di Krenek si lega e rapporta con le due composizioni che l’accompagnano?
VV: «Il contributo di Silvia Colasanti è tutto nelle due composizioni Eccessivo è il dolor quand’egli è muto e Ciò che resta. Eccessivo è il dolor quand’egli è muto è la riscrittura de il Lamento di Procri di Francesco Cavalli, dunque si tratta di un pezzo che, dal punto di vista tematico, è attinente per tema e argomento.
Il mio tentativo è stato quello di mettere in scena questi tre pezzi rapportandoli. In particoalre, il rapporto tra Eccessivo è il dolor quand’egli è muto e l’opera di Krenek si caratterizza per una sostanziale differenza legata alla morte della protagonista; il racconto di Krenek è una variazione del mito ovidiano per cui non avviene la morte di Procri, salvata dalla dea Diana, mentre il lavoro della Colasanti riprende il mito di Ovidio originale in cui è presente la morte dell’amata per mano di Cefalo. Ho lavorato prendendo questa differenza come guida principale. Dal punto di vista scenico, Krenek organizza in modo lineare il racconto, mentre in quello della Colasanti il lavoro, più conturbate ed evocativo, è scenico, costruito su immagini, non nel senso di proiezioni ma di cantanti solisti in carne e ossa che dialogano tra loro. Quello della Colasanti è una rappresentazione più contemporanea; dopo, nella messinscena di Krenek, i vari personaggi e gli avvenimenti trovano un ordine tale da essere riconosciuti dal pubblico».

In che modo ha voluto proporre l’ambientazione mitologica che caratterizza il libretto?
VV: «Il racconto di Cefalo e Procri, cuore dell’opera, viene rappresentato secondo il punto di vista degli dèi. I protagonisti non sono sullo stesso piano degli dèi posti in primo piano a osservare cosa accade ai due e intervenendo sulla loro vita.
Metterli in scena (gli dèi) mi ha fatto sorgere delle domande perché sentivo di non dover chiedere a un cantante di far finta di essere un dio come avviene solitamente nelle rappresentazioni classiche. Ho optato quindi per divinità umane, che vivono in un diorama, in un panorama naturale. Alla fine, dunque, il mondo dei protagonisti è una ricostruzione dal vero di un certo immaginario che noi abbiamo della mitologia dalle arti figurative, mentre il mondo degli dèi viene restituito contemporaneo e più concreto per noi».

L’opera appare ai giovani come un mondo lontano anche quando i teatri propongono titoli pop. Come inviterebbe un ragazzo ad assistere a Cefalo e Procri?
VV: «Questo spettacolo ha molte particolarità e novità. Il lavoro di Silvia Colasanti è una prima assoluta, l’opera di Krenek non è messa in scena dal 1934, il suo unico anno di debutto dal vivo. Tutto questo ci spinge molto lontani dalla tradizione e quindi, più che essere anticonvenzionali, possiamo ritenerci più liberi nella reinterpretazione.
Il risultato della serata? Omogeneità e un’atmosfera che potrà tendere di più alle orecchie e agli occhi in modo stimolante, una serata non lunga ma ricca di cambiamenti e mutamenti, dalle sonorità musicali alle articolazioni drammaturgiche».

Lei ha recitato, collaborato e assistito anche alla regia Luca Ronconi. Quanto dell’insegnamento del suo maestro è presente nei suoi lavori e in questo spettacolo in particolare?
VV: «La presenza dei maestri è qualcosa che accompagna sempre gli artisti, una presenza intangibile quindi irriconoscibile.
Quello che spero di continuare ad approfondire e capire dalla mia esperienza con Luca Ronconi è la lezione sulla relazione con lo spazio, tema che a me interessa davvero molto. È sia una guida per l’organizzazione del lavoro ma anche un punto interrogativo, elemento che, in questo caso, con una messinscena di questo tipo, diventa ancora più evidente».