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A margine degli ultimi due spettacoli di Project Scuola, andati in scena al Teatro Cometa Off di Roma, Valeria Freiberg racconta il fantastico dietro le quinte del Teatro per ragazzi.

Fare spettacolo è un mestiere duro e complesso e farlo per ragazzi e ragazze sembra esserlo in maniera ulteriore. Dall’atto creativo alla distribuzione, dagli allestimenti alla circuitazione: quali sono le specifiche artistiche del Teatro ragazzi, sia da un punto di vista delle difficoltà, sia da quello delle opportunità, rispetto al teatro adulto? Inoltre, come preferisce chiamarlo, Teatro per ragazzi o Teatro ragazzi? Ci motiva la sua scelta?
Valeria Freiberg: «È una domanda davvero interessante, che mette subito i punti sulle I! Stanislavskij diceva che la scelta del pubblico di riferimento ha a che fare con l’ideologia artistica di ogni compagnia. Lasciando da parte, per un’istante, la questione puramente economica, il teatro è un’attività commerciale e sarebbe folle negarlo, ogni compagnia ha le proprie affinità elettive, teatrali, culturali. Decide con chi gli piacerebbe dialogare. L’interlocutore è indispensabile: “Con chi voglio condividere il mio sogno, le mie visioni?”. Mi ricordo, un po’ di anni fa con un gruppo di miei amici siamo andati a vedere uno spettacolo al Teatro Eliseo di Roma, sto parlando del 1993. Il ricordo che conservo è il seguente: gli attori sul palco, alcuni molto noti, parlano con le voci teatrali, impostate, mentre la platea, avvolta nelle pellicce di visone, dorme. Pensai allora: “Se così deve essere il mio futuro professionale è meglio cambiare il percorso”. Poi ci fu l’esperienza del Piccolo Teatro di Milano. L’incontro con Strehler. La sua idea di organizzare gli incontri fra i giovani attori e il pubblico dei giovani. Abbiamo recitato Amleto di Shakespeare e le tragedie di Euripide. Ricordo lo spazio del Teatro Studio, spoglio, intransigente… e la sensazione che l’aria che ti circonda in scena – vibra di energia – perché quelli che ti ascoltano sono vivi. Ora, parlando seriamente, si tratta di una questione professionale molto complessa. Io mi occupo del teatro contemporaneo, ciò significa che mi interessa come cambia la vita attorno a me, come cambia il teatro, come cambiano i linguaggi. I giovani di oggi sono un pubblico che trovo interessante, stimolante, provocatorio. Loro mi incuriosiscono. Se guardiamo attentamente la storia del teatro risulta evidente che ogni rivoluzione teatrale significativa, ogni tentativo di superare la crisi teatrale comincia quando il teatro si rivolge ai giovani. Lo hanno fatto Stanislavskij, Vachtangov, Strehler ecc. Per parlare con i giovani e per essere ascoltati dai giovani, il teatro deve rinnovare i propri mezzi, devi abbandonare concetti, pose, atteggiamenti, per così dire, pseudo intellettuali e ritornare al mestiere. La straordinaria frase di Peter Brook: “Meno amore più arte!” diventa il punto imprescindibile. Devi avere il mestiere in mano, deve padroneggiare tutti i mezzi che il teatro post drammatico esige. Per cui direi che il teatro che faccio preferisco chiamarlo Teatro per ragazzi. Racconto loro il teatro che amo e loro mi dicono cosa ne pensano. Non ci facciamo sconti di nessun tipo».

Dal punto di vista delle opportunità materiali, questo modo di produrre teatro gode in Italia di alcuni contesti particolarmente favorevoli, che per l’altro teatro, invece, non esistono. Almeno in Italia, visto che in Europa l’esistenza di autentiche fiere teatrali è all’ordine del giorno. Ci riferiamo, infatti, all’esistenza di alcune cosiddette vetrine, kermesse come Segnali o Colpi di Scena, in cui produttori e maestranze del Teatro ragazzi possono incontrarsi in maniera costruttiva e virtuosa, creando rete e permettendo una diretta conoscenza degli spettacoli in circolazione. Come valuta questa situazione della parte distributiva della scena teatrale italiana rispetto a quella europea? Lei hai mai lavorato o pensato di lavorare fuori dai confini nazionali?
VF: «Che dire? Mi sembra di vivere in un mondo parallelo. La nostra compagnia vive, produce, organizza solo grazie alla fatica e la dedizione, direi, abnegazione di chi ne fa parte. Abbiamo raggiunto dei risultati incredibili, ma di aiuto o di sostegno istituzionali non ne abbiamo mai avuti. Per cui non saprei valutare, ma, in maniera del tutto astratta, direi che sia la collaborazione, sia scambi formativi, culturali, ecc. sono assolutamente indispensabili nell’ambito di attività teatrali. Non si può crescere se le idee non circolano, se i professionisti non si conoscono, e non si confrontano. Per ciò che riguarda il lavoro all’estero. Sì, ho lavorato in Russia e ora stiamo sviluppando un progetto molto interessante con una compagnia inglese Blue Goat Theatre».

Non sono molte le registe donne. Ci racconta il suo lavoro, quello dell’Associazione Culturale Ariadne / Compagnia Teatro A? In particolare, può soffermarsi su Project Scuola e su come ne finanzia l’attività?
VF: «Come ho già accennato prima ci finanziamo producendo e distribuendo da soli i nostri spettacoli e le nostre rassegne. In generale, sono molto affezionata all’idea della compagnia stabile. Perciò direi che la forma della rassegna ci è necessaria per offrire alla compagnia la possibilità di avere la progettualità a lungo termine, la continuità lavorativa finalizzata alla realizzazione di un determinato percorso creativo. Così, per esempio, è nata l’idea della rassegna Project Scuola, che quest’anno festeggia la sua quinta edizione. Così nasce la rassegna Teatro Letterario. Dipende dal linguaggio che si vuole approfondire, dai temi che si vogliono affrontare. Dipende dal tipo di lavoro che si vuole fare con gli attori e con il pubblico dei giovani. A volte gli attori della compagnia Teatro A in quattro giorni consecutivi recitano quattro spettacoli diversi e non si tratta solo del testo diverso. Sono quattro temi diversi, quattro stili recitativi e letterari diversi. Per quel che riguarda me: è vero sono una regista donna, ma nel mio biglietto da visita è scritto: “Il direttore artistico”. Metto l’articolo maschile per sottolineare quanto è difficile il mestiere del regista, del direttore artistico. Ed è un mestiere strano: se tutto va bene nessuno si ricorda del regista. Se qualcosa va storto la colpa è del regista. Comunque, a mio avviso, le componenti importanti sono la bravura professionale, la competenza tecnica, la determinazione creativa di un regista, la sua capacità di intendere il teatro, lavorare con gli attori se poi il regista sia un donna o un uomo per me non ha nessuna importanza. Per quel che riguarda l’Associazione Ariadne: è stata fondata dal grande attore italiano Arnaldo Ninchi che credeva fermamente nella necessità di far dialogare i giovani attori con il pubblico dei giovani. Nel 2012 mi ha chiesto di prendere la direzione artistica. Mi lusinga far parte di questa storia. Il teatro, per come lo intendo io, deve avere le radici, deve avere la memoria e l’Ariadne rappresenta tutto questo. Il lungo cammino di una tradizione teatrale che deve essere riformata ma che esiste».

Ricerca performativa e attenzione al sociale: come nasce, come combina e come sviluppa l’idea che il messaggio teatrale possa veicolare valori e modelli di comportamento, dunque valori etico-civili, attraverso una più generale educazione alla/dalla bellezza? Come scegliete i testi o i temi dai quali partite per poi forma agli allestimenti e come si approccia agli stessi?
VF: «Il teatro per la sua natura è un’occupazione performativa e sociale. Basta leggere Il Gabbiano di Čechov per avere chiaro la potenza etico-civile di un’azione scenica. “C’è spazio per tutti” dice uno dei suoi personaggi. Ogni ricerca performativa ha una sua attenzione sociale. Poi come nasce, come cresce, come da un’idea, un ricordo, nasca uno spettacolo teatrale capace di coinvolgere e di educare il pubblico (anche se il verbo educare non lo sento del tutto mio) dipende dalla natura psicofisica di un regista. Dal suo vissuto umano e professionale. La tragica delusione amorosa di Hans Christian Andersen si è trasformata nella favola La Regina della Neve, la commedia brillante di Čechov Il Giardino dei ciliegi nella visione di Stanislavskij si è trasformata in un dramma psicologico. Perché? Chi lo sa. La materia del teatro è una materia fluida, in continua trasformazione che richiede la conoscenza emotiva della vita quotidiana.

Come scelgo i temi? Scelgo i temi che mi coinvolgono emotivamente che mi permettono di scoprire qualcosa di nuovo sulla vita. Un tema nuovo, lo stile letterario nuovo richiede una forma nuova. E qui torniamo al punto di partenza, se sei sincero con te stesso, se il tema che tu porti in scena ti turba davvero, i ragazzi si aprono e si fanno coinvolgere. Mi ricordo una replica di Antigone di Anouilh con il pubblico di ragazzi di un Istituto tecnico di Civitavecchia. Telefonini, tatuaggi, avvertimenti dei professori sul basso livello culturale dei ragazzi. C’era un silenzio assoluto durante lo spettacolo e le lacrime dopo lo spettacolo. Li abbiamo educati alla bellezza? Non lo so. Ma sicuramente hanno voluto prendere parte della nostra riflessione».

Rispetto ai contenuti e alla poetica, qual è l’identità etica ed estetica del suo lavoro che «promuove il teatro come luogo di arte, pensiero e creazione, servizio culturale necessario al benessere e alla crescita dei ragazzi»?
VF: «Io amo il teatro. Amo questa sua tenacia con cui tenta di rompere la solitudine umana, con cui esige la partecipazione. Il segreto – io credo – si cela nella capacità del teatro (qualora fatto per davvero) di distrarre un individuo dal proprio ego spostando l’attenzione sul prossimo che in scena racconta la sua storia. È errato pensare che il pubblico dei ragazzi sia un foglio bianco su cui i sacerdoti della grande arte teatrale possano facilmente incidere parole di colore oscuro. I ragazzi entrano nelle sale teatrali portando con se tutte le tensioni interiori dell’adolescenza, assolutamente convinti che nessuno si interessi dei loro sentimenti, che stare al teatro sia meglio che stare a scuola. Far capire loro che il teatro sia uno spazio in cui riflettere su se stessi, sul mondo che li circonda, sulla necessità di osare, di sognare… questo per me significa promuovere il teatro come luogo di arte, pensiero, servizio culturale necessario al benessere e alla crescita dei ragazzi. È chiaro che per ottenere questo risultato il teatro deve essere straordinario! Deve avere una lingua, un gesto, un respiro. “Per i ragazzi – diceva Stanislavskij – bisogna fare tutto come si fa per gli adulti… ma meglio!”. Questo meglio è l’obiettivo estetico che mi appassiona. Alzo in continuazione l’asticella. Esigo da me e dagli attori il massimo. Rifiuto le forme semplificate».

Nei suoi lavori e nel suo modo di lavorare, esiste una discriminante e/o una pregiudiziale anagrafica? Nel senso, ritiene che esista una differenza – a monte nella sua intenzione, a valle nella fruizione – tra chi, giovane, può comunque andare autonomamente a teatro (e magari approcciare testi impegnativi e/o classici, es. da Ibsen a Beckett, e farlo la sera), e chi, giovanissimo, ha la necessità di farsi accompagnare da genitori, insegnanti o comunque adulti?
VF: «È inevitabile che differenzio le mie scelte artistiche per le fasce d’età, ma questo certamente non cambia il mio modo di lavorare. E comunque, la ricerca del repertorio si basa sulla scelta attenta dei testi da proporre. Anche se le nuove generazioni sono molto diverse da noi. Vi faccio un esempio; non lavoro mai con i bambini molto piccoli. La nostra fascia d’età sono young adult. Quest’anno abbiamo deciso di coinvolgere anche i più piccoli mettendo in scena La Regina delle Nevi. In sintesi, a Potenza, entro in platea prima dello spettacolo e vedo i bambini di quattro anni mentre in scena ci sono le chitarre elettriche, effetti sonori ed elettronici. Sicuramente direi che i bambini così piccoli non erano previsti. Alla fine dello spettacolo, però, con grande sorpresa di tutti, i bambini erano felicissimi, divertiti, allegri. Torno a pensare che fossero troppo piccoli per questo spettacolo e necessitano di un altro tipo di lavoro, ma ciò nonostante sono i bambini dell’era digitale e dobbiamo fare i conti anche con questo».

In quali progetti la vedremo nel prossimo anno?
VF: «Ci sono diversi progetti che si stanno concretizzando in questo periodo. Fingers crossed. Ma quello a cui tengo di più è Carmen di Prosper Mérimée che uscirà alla fine del febbraio 2020».