Si sentiva il bisogno di una legge sul teatro. La 112/2013 è solo parziale. Rischia di provocare un terremoto in alto. Ma di lasciare intatti i problemi dell’instabile e brulicante mondo del teatro non di “prima fila”.

Nel mondo dello spettacolo se ne parla da tempo. Di una legge vera sul teatro si sentiva il bisogno. Le disposizioni in vigore fino all’ottobre scorso erano una sorta di millefoglie lievitato sopra le leggi degli anni Sessanta, spesso semplici eredi di quelle fasciste, poi via via emendate col tempo. Il 7 ottobre scorso, invece, è stato convertito in legge il decreto Valore cultura (un minestrone in cui rientra tutto, da Pompei al circo) e il ministro Massimiliano Bray si è impegnato a firmare i decreti attuativi entro i 90 giorni previsti, ovvero entro il 9 gennaio. Non è la “legge sul teatro” che molti si aspettavano, ma rischia di provocare un terremoto lo stesso (rischia perché poi in Italia le riforme vengono sempre domate). La sorpresa più grande è l’abolizione dei teatri Stabili, che si chiameranno Nazionali.

Pare non sia solo il solito cambio di nome. Più significativo il passaggio dai finanziamenti annuali a quelli triennali, dal 2015. A chi sa quali difficoltà hanno oggi i teatri a fare programmazione anche per l’anno in corso viene da sorridere. Comunque il primo punto è l’abolizione della strana formula degli Stabili, che ora sono 67. Ce ne sono di tre tipi: pubblici, privati, d’innovazione, che si dividono tra ricerca e attività per ragazzi. Quelli pubblici (per esempio il Piccolo di Milano), sul piano giuridico, sono associazioni private, con bilanci in pareggio; ma destinatari di fondi pubblici e con una funzione pubblica. Uno dei risultati è che lo Stato non può cambiare un direttore, anche se del tutto inefficiente e benché ne finanzi le attività, né mettere becco nella programmazione. Gli attuali 17 Stabili pubblici diventeranno quattro Nazionali, ma se ne potranno aggiungere altri se rispetteranno alcuni criteri, soprattutto la dimensione della sala e il numero di repliche degli spettacoli. Anche questo colpisce perché chi fa teatro sa che le tournées lunghe non si riescono più a fare, gli spettacoli non girano e durano poco perfino dove sono prodotti.

Risultato: si continueranno, molto probabilmente, a premiate gli scambi tra grandi teatri, anziché promuovere innovazione, benché le coproduzioni siano scoraggiate e si voglia premiare il lavoro sul territorio. E poi perché premiare la dimensione della sala e non la capacità di riempirla? In più le coproduzioni, in sé, sono tutt’altro che il diavolo. E spesso costituiscono l’unica possibilità di produrre uno spettacolo come si deve. Buona, invece, la norma che limita il mandato dei direttori artistici e soprattutto impedisce loro di mettere in scena i propri lavori. Va bene con i soldi privati (tutti hanno diritto a “farsi” un proprio teatro), ma è ovviamente ingiusto con quelli pubblici.

Cambiano anche i criteri per l’assegnazione dei soldi del Fus, Fondo unico spettacolo: si tratta sempre di 62 milioni di euro per la prosa. Ma finora gli Stabili hanno preso 36 milioni, dei quali quasi 17 ai 17 Stabili pubblici. Ora i quattro Nazionali avranno circa 8 milioni. Il resto finirà ai teatri di Interesse pubblico, ai circuiti, alla promozione, alle compagnie di giro.

Come sempre in Italia si troverà il trucco, ma l’aspetto più interessante della riforma è che tutto dovrà essere trasparente e online: i teatri dovranno dire quanti attori assumono, quanto spendono, quanto pubblico hanno avuto, quante volte sono andati all’estero, qual è il profilo del direttore artistico. Tutto ciò porterà un punteggio che servirà per ottenere il contributo.
Come si farà a evitare che pur di avere pubblico, i teatri mettano in scena solo X Factor? Ci sarà una commissione a cinque per giudicare la qualità. Come riuscirà a funzionare questo meccanismo in un mondo teatrale che si è frammentato in mille rivoli ma quasi clandestini, che produce moltissimo (solo cinque commissari?!) ma gira poco, figuriamoci all’estero, che spesso non ha pubblico per gli spettacoli di qualità e raccoglie folle per il pop puro? Certo da qualche parte bisognava pure cominciare e la stratificazioni di leggine e norme precedenti era intollerabile. Ma il mondo del teatro si aspettava una legge organica. E viene da pensare che, accanto alla legge, servirebbe un atteggiamento diverso, a cominciare proprio dal governo, verso lo spettacolo: il teatro è un formidabile strumento formativo, non si capisce perché non costituisca materia di studio in tutte le scuole.

Gioverebbe poi, nei teatri pagati con i soldi dei contribuenti, abbassare i prezzi dei biglietti (chi può oggi pagare 35 euro?). Al tempo stesso prima di porsi il problema dell’assunzione degli attori, forse occorrerebbe offrire loro l’occasione di lavorare: per i ragazzi, pur bravi, che escono dalle mille scuole fiorite in Italia (spesso unica fonte di sostentamento per gli attori più anziani), hanno troppe difficoltà a salire su un vero palcoscenico.

E in ultimo, perché non pensare a un teatro fuori dal teatro che avvicini un pubblico più vasto e diffidente? Quante volte, guardandoci intorno nei grandi teatri, abbiamo visto solo teste bianche?