Zio Vania a Milano

Al Teatro dell’Orologio di Roma è in scena la sesta edizione del Festival Inventaria 2016 di drammaturgia contemporanea. Occasione per noi di Persinsala – mediapartner dell’evento – di tornare a vedere all’opera la Compagnia Oyes di Milano, con Vania.

Prendere a modello un classico – scrive Claudio Magris – vuol dire che non possiamo più avere la sua grandezza, e che possiamo far sentire la perfezione del suo canto attraverso la povera eco della nostra voce, una voce che cerca un senso che l’oggi non ci può dare. Rivolgersi a un classico quindi è operazione sempre interessante, perché permette di leggere il nostro tempo scampando l’attualità, seguendo piuttosto la verità ben più consistente di un ciclo eterno che torna sempre. Inoltre una preziosa prerogativa del classico è di essere intempestivo: perfino Majakóvskij affermò di essere stufo di guardare gli avvenimenti dal buco della serratura costruito da Cechov. E quali poi? Zio Vanja che si soffia il naso?

Eppure questo Vania della Compagnia Òyes viene solo per ultimo nella lunga scia di teatranti che hanno cercato di svelare il segreto di un’opera considerata senza azione, priva di idee, eppure arrivata viva fino a noi, con a corredo una verità difficile per personaggi sopresi da un mortificante impatto col mondo. L’operazione potrà dirsi riuscita solo nella misura in cui sarà in grado di “fallire”, cioè di rendere ancora più vivo il segreto dell’opera senza alcuna arroganza di svelamento, con il regalo forse di rendere il segreto amico, per quanto il pubblico possa intimamente conversare con una certa idea della morte, o con un’insistente sensazione di fallimento. Una cosa è certa: gli autori hanno amato profondamente questo testo per poterlo restituire sulla scena in un modo così vicino all’oggi. In controluce è possibile quasi intuire il gioco di scrittura drammaturgica, sia in progress (accumulazione retorica del testo come scaturisce da probabili training di improvvisazione), che in regress (condensazione del vivo materiale orale così come viene ad asciugarsi sul copione). La riscrittura rispetta la struttura narrativa originale, tanto che è possibile quasi sovrapporle. All’interno di ogni scena è possibile ravvisare parti del testo cechoviano che divengono per gli autori quasi dei “significanti-pilota”, ossia battute di scena rivelatrici della verità intima e dolente del personaggio, che – come un potente magnete – ha indirizzato la scrittura rispetto ad un set che non è più la dacia di una campagna russa, ma un misero appartamento di una periferia.

«Sono un personaggio episodico» ammette Elena nella conversazione con Sonia, battuta individuabile nel testo del Maestro russo, ma che qui risulta splendere in una brillante riscrittura di scena, in modo tale da orientare la narrazione dell’oggi. Sonia è una ragazza che si sente brutta, sogna di mollare tutto per andare a Londra e intraprendere una carriera di cantante; Elena è bellissima, tutti sono innamorati di lei e si chiedono perchè abbia sposato un uomo vecchio – il professore – che in Cechov è un vecchio egoista e ipocondriaco, mentre qui è un malato in stato comatoso. «Sono un personaggio episodico»: confessione che dice molto su un senso di inconsistenza cementato da un protettivo matrimonio, spianando la strada all’epilogo tragico, che non svelaremo, e che imporrà un’ipotesi finale alternativa. «Nessuna esigenza scenica giustifica la menzogna» scriveva Cechov e gli autori affondano la lama proprio in questa direzione estetica, individuando in Elena il punto di caduta rovinosa e tristemente sorprendente della pièce. L’abilità degli attori è ravvisabile nel contributo al testo nel training creativo, intuibile dalla padronanza di ciascuno sulla scena. Questa risulta un po’ affollata, la gestione dello spazio sembra macchinosa, ma si tratta solo di dettagli; la sostanza è che l’opera, facendo un’originale e raffinata eco al testo di un Maestro, decide di compiere un coraggioso omaggio, senza per questo “diminuirsi”, avendone in cambio la comprensione di questo tempo. Un tempo in cui il nostro paese sembra davvero un malato terminale e i figli più giovani sono posti nella posizione di vegliare un morto. A trentasette anni – riflette Vania – si ha un’aspettativa di vita di altrettanti: «E come li occupo io ‘sti anni?». Cechov fa dire a Sonja nel commovente finale: «Io credo». In cosa? Si potrebbe rispondere: nel Teatro. Perché no? Questo gruppo di attori della Compagnia Oyes crede, e stasera ce lo ha dimostrato.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro dell’Orologio

Via de’ Filippini 17/A Roma
giovedì 12 maggio 2016 ore 21

All’interno del Festival Inventaria 2016
Vania
drammaturgia collettiva
ideazione e regia Stefano Cordella
con Francesca Gemma, Vanessa Korn, Umberto Terruso, Fabio Zulli
costumi e realizzazione scene Stefania Coretti, Maria Barbara De Marco
disegno luci Marcello Falco
organizzazione Giulia Telli
produzione Oyes