VolterraLafortezzaCarcereCome Tim Robbins, finissimo interprete di Le ali della libertà, ha saputo regalare alla platea la sensazione di volare quando apre le braccia al cielo sotto una pioggia scrosciante,  così Armando Punzo – da 25 anni – apre un carcere al mondo e costringe il mondo in un carcere.

Sperimentare Volterra Teatro significa entrare nella sua Fortezza, in un’afosa giornata di luglio, mentre qualche turista passeggia svogliato per le vie semideserte.

La coda è lunga davanti al portone del carcere. Per noi è la prima volta: non siamo mai entrati in una casa di reclusione.

A piccoli gruppi mostriamo i documenti, lasciamo borse, computer e cellulari, passiamo sotto il metal detector, ci spogliamo di tutto e in cambio riceviamo un cartellino che certifica il nostro status di ospite. Lo appuntiamo sugli abiti, scherziamo sul fatto che è il nostro lasciapassare per la libertà. La reclusione è un fatto mentale o fisico? D’un tratto, all’interno del cortile della prigione, la realtà delle sbarre, del filo spinato, delle guardie che ci sorridono con gentilezza e un pizzico di ironia, esaurisce le velleità filosofiche: tre metri per quattro significa esattamente questo: non un passo oltre, nessuna soglia da poter varcare, nessuna porta che volontariamente noi si possa aprire.

Perché siamo qui? Perché da 25 anni spettatori, teatranti e giornalisti si ritrovano alla Fortezza di Volterra per vedere dei reclusi recitare con e sotto la direzione di Armando Punzo?

Il cappellaio matto ci invita a seguirlo. E noi, come Alice nel Paese delle Meraviglie, attraversiamo i cortili dell’ora d’aria, rinominati – perché il segno può dare un senso altro, soprattutto qui – Spazio Dalí, Spazio Brecht, Spazio Artaud… Ad accoglierci, due ali di statue animate, in forme plastiche: i marinai di Querelle de Brest, con i nomi delle fidanzate, mogli, amanti, tatuati sulle braccia e bicipiti muscolosi – potrebbe sembrare uno stereotipo, ma l’arte non è sempre una forma a suo modo stereotipata della realtà? E i rimandi Genet/Fassbinder sono più che mai pregni di significato, soprattutto qui, e funzionali all’immaginario di Punzo (lui non è à la manière de, perché lui è l’originale).

Il cappellaio matto ci accompagna in uno spazio chiuso, claustrofobico, moltiplicato da centinaia di specchi barocchi: sulle pareti, sul soffitto basso. Cornici dorate che ci riflettono e ci obbligano a confrontarci con l’altro da sé – a sua volta reale o riflesso, come lungo il corridoio di Profondo Rosso.

Il pubblico si perde tra gli interpreti, in un labirinto di stanze, dove gli attori presentano pezzi brevi, pochi minuti di poesia rubata: spezzoni di infinito lirismo innestati sulla fisicità della carne – sudata, desiderata, voluta, disprezzata, rigettata, abortita, concupita, oscena e voluttuosa. Lo spettatore, recluso nell’angustia soffocante delle stanze minuscole, oppresso dalle pareti della Fortezza, è lasciato libero di muoversi, di agire – ma in uno spazio controllato. Libero di scegliere quale voce ascoltare, su quale volto – riflesso o reale – concentrare la propria attenzione, la propria brama di capire. L’universo di due geni torna a confrontarsi: la voce straziante di Jean Genet, l’immaginario iperrealista di Querelle firmato da Rainer Werner Fassbinder. Un intero universo, opulento e barocco, oscenamente voluttuoso, che attrae e respinge si dispiega non solo di fronte a noi – non siamo entomologi che fissano un insetto attraverso una lente di ingrandimento – bensì ci risucchia al suo interno: partecipiamo all’orgia di senso pasoliniano – leather boys e marinai, Helmut Berger en travesti e Dirk Bogard portiere di notte e servo/padrone, una Jeanne Moreau in versione dark che interpreta Each man kills the things he loves.

Alice entra nel gioco, attraversa lo specchio, e d’un tratto si scopre circondata da interpreti bravissimi, tutti perfettamente in parte: importa davvero chi nasconde la maschera dell’attore? Carcerato o divo, Punzo insegna: quando sei di fronte alla Compagnia della Fortezza, sei a teatro. L’esperienza si conclude con uno scroscio di applausi: gli interpreti al di là delle sbarre, il pubblico al di qua. Sensazione straniante ritrovarsi divisi: la realtà del carcere, d’un tratto, è più forte dell’illusione dell’arte.

Dopo qualche minuto di sconvolgente presa d’atto, con le proprie generalità di ospite ben pinzate all’abito, si torna allo Spazio Dalí: lentamente arrivano anche gli attori, struccati, in abiti civili, senza tesserini di riconoscimento. Ci si accorge che gli estranei siamo noi, noi quelli etichettati.

L’incontro è conciso. Armando Punzo presenta il libro che racconta i suoi primi 25 anni come autore, regista e interprete con la Compagnia della Fortezza, mentre Andrea Salvadori – ormai collaboratore fisso dei suoi spettacoli –  ha finalmente raccolto le sue musiche originali in due cd, molto curati anche per quanto riguarda la veste grafica, Hamlice e Mercuzio non vuole morire.

Due gocce di pioggia, poi il sole torna ardente. Poche parole, un’essenzialità timida, priva di retorica, un rispetto per il lavoro fatto con impegno e talento. La richiesta di trasformare questo teatro in uno Stabile: questo sì à la manière de Punzo – in controtendenza, sperimentale, oltraggiosamente vitale, e forse proprio per questo motivo tanto vagheggiato e non ancora realizzato.

Verso sera, ci si sposta allo Spazio Leopardi per il recital di Danio Manfredini. Perfezione tecnica, professionalità, ma anche un’umanità che si può palpare nell’aria – sensibile e timida come quel mezzo sorriso che gli sfugge e che noi accogliamo con altrettanto affetto. La sua voce ci avvolge, crea un’atmosfera di complicità con gli spettatori, attenti, che pendono da quelle labbra quando sussurrano testi di Jean Genet e Mariangela Gualtieri (cofondatrice del teatro Valdoca) o intonano, come poesia in musica, i versi de I giardini di marzo.

Lo sguardo corre al cielo: una guardia sale verso la torretta, sberciata, le telecamere inquadrano noi, il pubblico, due piccioni tubano e volano via liberi.

E alla fine, quando usciamo da quel portone, dopo aver salutato guardie e detenuti con la stessa mestizia provata da un bambino alla fine dei giochi, noi che temevamo di rimanere reclusi, ci ritroviamo in strada, un po’ più soli, quasi orfani, e con la sensazione di essere esclusi.

(consulenza musicale: Luciano Uggè)
(foto: Daniele Rizzo)

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Gli spettacoli sono andati in scena:
Carcere di Volterra
martedì 23 luglio
ore 15.00:
Compagnia della Fortezza presenta
Santo Genet Commediante e Martire
primo movimento
ispirato all’opera di Jean Genet
drammaturgia e regia Armando Punzo
prima nazionale

(prossime repliche:
giovedì 25 luglio, ore 15.00
venerdì 26 luglio, ore 17.00
)

ore 17.00:
Incontro
Venticinque anni della Compagnia della Fortezza

presentazione del libro di Armando Punzo È ai vinti che va il suo amore – 25 anni di teatro della Compagnia della Fortezza di Volterra (Edizioni Clichy);
presentazione dei cd musicali di Andrea Salvadori Hamlice – Musiche sulla fine di una civiltà e Mercuzio non vuole morire con le musiche originali degli spettacoli della Compagnia della Fortezza;

ore 18.30:

Sotto-controllo in collaborazione con La Corte Ospitale di Rubiera
Incisioni alla Fortezza
recital-concerto di Danio Manfredini