L’Apocalisse che dà la Nausea

In prima nazionale, al Teatro dell’Orologio, la nuova poetica di Vuccirìa Teatro va in scena con Yesus Christo Vogue.

«La violenza sembra irresistibilmente diffondersi in un processo che ricorda la propagazione del fuoco o un’epidemia […] L’impressione è che l’intera umanità si stia recando a una sorta di appuntamento planetario con la propria violenza». Scriveva così il filosofo cattolico René Girard per richiamare l’umanità all’ineludibile necessità di tornare a porsi al cospetto di Dio per, in questo ritorno, cercare l’ultima e unica salvezza possibile dal disincanto di un mondo votatosi all’autodistruzione.

La videoinstallazione delle (reali) atrocità umane che accompagna l’ingresso in sala del pubblico lascia intuire un’aria di famiglia con la critica girardiana al modernismo, ma Vuccirìa Teatro, con Yesus Christo Vogue, propone un allestimento dai tratti controversi e dissonante rispetto a Io, mai niente con nessuno avevo fatto e Battuage (spettacoli che avevano assicurato alla compagnia consensi di critica e pubblico quasi unanimi) e mostra di non accontentarsi della (pur celebre) unilateralità di una tematica eco-teologica.

Come vedremo, sul piano dell’allestimento, il tradizionalismo tragico di Yesus Christo Vogue si muove tra luci e ombre senza particolari criticità o virtù, mentre su quello ideologico Vuccirìa Teatro sfida il proprio passato, lanciando un clamoroso appello alle responsabilità individuali e planetarie.

È infatti con grande ambizione che Anastasi decide di far coesistere “la morte di Dio” con il dilaniante fardello di una scelta affatto scontata/indolore tra due mondi alternativi e priva di quella ipocrita terra di mezzo dove cresce l’ignavia di chi considera possibile non pagare in prima persona per le proprie scelte. Nel primo mondo, quello secolarizzato, «nessun Dio viene più invocato»: teatralmente solcato da una enorme e suggestiva croce, la sua terra è ormai consegnata alla completa desertificazione, in essa non cresce più nulla e tutt’al più sarà possibile nutrirsi di animali caduti (già) morti dal cielo. La regia trasfigura questa condizione in un giardino apocalittico di un tempo sempre uguale a sé stesso, in un luogo in cui vita e morte si sono dimenticati/risparmiati a vicenda e dove gli unici «due superstiti del genere umano» sono un uomo (Lui) e una donna (Lei) che, non riuscendo a sognare, dovranno (sop)portare nella solitudine il peso della propria (minuscola) esistenza (Lei: «non c’è nessun disegno in tutto questo»). I due protagonisti sono cittadini «per sempre predisposti all’infelicità e incapaci al suicidio» di una sartriana libertà che dà la nausea e che, allo stesso tempo, spalanca la possibilità di scegliere l’amore per essere o meno autentici artefici della propria vita.

L’altro mondo è quello incantato, ma è ormai perduto. Suo unico abitante è una divinità sofferente e marcia («io sono morto congelato, mi aggiro in questo bosco pensando solamente che ho bisogno di rubare a qualcun altro il calore») che la donna intuisce essere come «insensatezza […] che la tua mente sta generando per non impazzire». Si tratta di un dio minore che afferma il proprio verbo autoinfliggendosi il martirio ma che, pur spodestato da ogni trono, continua a rappresentare una potente seduzione per coloro i quali, piuttosto che fare i conti con la propria coscienza, preferiscono delegare l’onere delle proprie scelta a una volontà altra, imperscrutabile e indiscutibile (Lui: «ma se fossimo qui solo allo scopo di ricominciare tutto da capo? […] se così non fosse, dimmi allora perché non siamo morti anche noi»). La divinità è simbolo di chi intende essere rasserenato dall’esistenza di qualcosa di superiore, ma che è, di fatto, rassegnato a non salire con le proprie forze sui monti e a non abbandonare la falsa beatidutine della pianura (Lui: «Perché ancora ci tiene attaccati a questa terra che non ci vuole?»). Impossibile non pensare a una diretta parafrasi scenica dello Zarathustra di Nietzsche.

Al tragico umano, che Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano interpretano con crescente intensità fisica, pur faticando a costruire una relazione adeguatamente interiorizzata perché ancora macchinosa nell’enfasi gestuale e vocale, fa da contraltare il dramma divino di Joele Anastasi nelle (poche) vesti di un Cristo nestoriano, la cui natura divina ha ormai abbandonato quella umana. È un Gesù color cenere il protagonista della sequenza visiva e testuale più riuscita della serata, quel momento in cui, cospargendosi la schiena di cera bollente, il Figlio dell’uomo declama il decalogo dei nuovi comandamenti dando sfoggio a un esempio di bella qualità drammaturgica che riesce a conciliare l’ambivalenza dell’umano «desiderio di autodeterminazione e del mutevole e conflittuale rapporto tra uomo e mondo» con l’inevitabile naufragio nel dolore di ogni imposizione prescrittiva.

Bersaglio di questo scenario catastrofico non è allora banalmente la fede tout court, ma la fede nella Fede e la tentazione di un nuovo Olimpo dopo quello degli dèi e della tecnica. È questa una «divinità 2.0 […] che coincide con l’essere umano stesso» e di cui diventa pericoloso immaginare «nuovi miti» e «una trascorsa ed eroica sacralità» da cui potrebbero generarsi nuovi falsi idoli. A questo desiderio/scenario sembra essere esposto Lui, ma non Lei («dio? Che cos’è? È solo una parola vuota che rimbomba nelle nostre teste!»), perché è l’uomo e non la donna a voler ri-essere un novello Adamo pur di un mondo alla deriva, malcelando dietro questo buon proposito di rewind il drammatico maschilismo dei tempi attuali (Lei: «Io non sarò la madre», Lui: «potrei sempre venire là e violentarti»).

Da questo allarmismo generale prende le mosse Yesus Christo Vogue, allestimento che dunque si contrappone alla privata sofferenza di chi viveva con lacerante estraneità la propria intimità (Io, mai niente con nessuno avevo fatto e Battuage). Lo spettacolo si modella su una drammaturgia più canonica nell’allestimento, ma che si disvela ben più ardita dal punto di vista dell’intenzione e nel far dialogare l’ortodossia dell’esistenzialismo (il nulla come reale opportunità di essere) con la radicalità del piano ontologico (l’ineluttabilità della miseria e dell’autodistruzione umana).

Di limpida linearità e incastonata all’interno di scene dal grande impatto fotografico, la narrazione alternata non patisce la necessità di affinare tecnicismi vocali e di luce, mentre la composizione sonora, lontana dal contrappuntare con originalità evocativa le metafisiche atmosfere di crisi, restituisce una sensazione di grave artificiosità, al pari di costumi più adatti a un Gladiatore agli Hunger Games che alla contestualizzazione in un tempo e in luogo imprecisati di chi, da millenni a venire, sta errando alla ricerca di qualcosa (o Qualcuno) che possa dare una direzione al proprio insensato e infinito esserci.

Yesus Christo Vogue potrà dunque perplimere per gli esiti di una svolta che tradisce, forse, un eccesso di brama e un formalismo non ancora adeguato, soprattutto in termini di ritmo e relazione attoriale. Tuttavia, almeno per chi pensa (come il sottoscritto) che l’essere artista non possa connotare chi fa finta di correre per restare fermo, allora è, paradossalmente, proprio tra le pieghe di queste sbavature che potranno essere intraviste le potenzialità e i meriti da riconoscere all’audace percorso di questo giovanissima compagnia, che, di certo, pur di rispondere positivamente alla chiamata pindarica «diventa ciò che sei», non mostra remora o timore.

Lo spettacolo continua
Teatro dell’Orologio
via dè Filippini, 17/a, 00186 Roma
dal 16 al 26 marzo 2016
dal martedi al sabato ore 21.00 – domenica ore 18.00

prima nazionale
Yesus Christo Vogue
di Joele Anastasi
con Joele Anastasi, Enrico Sortino, Federica Carruba Toscano
regia Joele Anastasi
scene Giulio Villaggio
costumi Alessandra Muschella
aiuto regia Enrico Sortino
disegno luci Davide Manca
video e graphic design Giuseppe Cardaci
foto di scena Dalila Romeo
realizzazione scene Alessandra Muschella, Giulio Villaggio
aiuto regia Nathalie Cariolle
organizzazione Chiara Girardi
responsabile tecnico Omar Scala
mediapartner Saltinaria
ufficio stampa LeStaffette
produzione Progetto Goldstein
co-produzione Vuccirìa Teatro