Metamorfosi metropolitane

teatro-contraddizione-milano-2London Calling, prima ancora di essere la celebre canzone dei Clash che tutti conosciamo, era il segnale di chiamata del BBC World Service che, durante la seconda guerra mondiale, urlava la propria voce oltreoceano, tendendo un filo al di sopra delle censure e delle paure. Può succedere che…anche a Milano capiti qualcosa del genere. Può succedere che quel bisogno di masticare incessantemente i propri desideri attraversi la Manica e le linee del tempo, giungendo fino a qui, fino a uno spazio-tempo come il Teatro della Contraddizione, in cui finalmente poter liberare il proprio grido d’esistenza.

Il Milano Calling – evento ormai giunto alla suo sesto appuntamento – è la versione milanese di quella controcultura inquieta che vuole liberare i propri desideri, superando, almeno per una sera, tutti quei freni e quelle censure che ci vengono imposti – e che noi stessi ci imponiamo, spesso senza nemmeno rendercene conto – ogni giorno.

Il viaggio inizia alle 14 con lo Psicomarket, un mercatino di abiti e oggetti di stilisti e designer indipendenti. Ma anche, e soprattutto, un mercatino di idee, di arte, musica, colori e sorrisi. Un via vai di gente che riempie gli spazi del TDC per tutto il pomeriggio, volteggiando e socializzando tra abiti vintage, libri e racconti che si passano di mano in mano, di bocca in bocca. Nel frattempo il palco viene “aperto” a chiunque voglia proporre la propria musica, che accompagna per tutto il giorno, fino alle 19, questo interscambio di esistenze, ancor prima che di cose.

Intorno alle 21 inizia il vero e proprio Milano Calling e ogni spettatore entra in Contraddizione, con il suo carico di desideri – alcuni dei quali possono essere comunicati via mail al TDC nei giorni precedenti l’evento, nella speranza di una loro realizzazione durante la serata. Si entra con la consapevolezza che tutto può succedere – ammesso che sia possibile avere consapevolezza dell’ignoto. Si entra depositando fuori difese e razionalità, varcando quella soglia che ha davvero il sapore di soglia.
La gente scosta il sipario ed entra nei meandri di se stessa. C’è chi si accovaccia per terra, chi si siede intorno ai tavolini, chi se ne sta più nascosto ai lati della sala, mentre la calda voce di Marco Maria Linzi – direttore e anima del TDC – segna l’inizio del viaggio. Il pubblico viene subito spronato a cimentarsi nella composizione di suoni e vibrazioni prodotta dal theremin, strumento della musica elettronica che, con il solo movimento delle mani, avvicinate e allontanate da due antenne, produce un ampio spettro di variazioni sonore. Mentre le onde elettroniche accarezzate amatorialmente dagli spettatori – che sono in realtà i veri attori e protagonisti della serata – continuano a diffondersi nella sala, partono, sui proiettori, filmati, frasi e desideri.
Desideri di mischiarsi, di perdere i propri confini identitari, di contaminarsi con il proprio vicino, scoprendo così che l’“altro” non è mai davvero “altro”, che ci si può riplasmare a ogni sguardo, a ogni respiro. Tra le danze scomposte di due ragazze che si muovono epiletticamente tra la folla, con il volto dipinto e il corpo che diventa puro flusso di energia, il pubblico inizia a sciogliersi, a guardarsi intorno, ad assottigliare le distanze che separano un corpo dall’altro. Dopo un grido animale collettivo che riporta a un’originarietà pre-umana – o meglio, pre-individuale – liberando urla viscerali e pre-edipiche, la gente viene presa per mano e fatta cambiare di posto, prima di iniziare a farlo in tutta autonomia.
Il flusso energetico continua a muoversi, con Linzi che passa tra le persone con un microfono in mano, facendo leggere a ognuno una frase tratta da Urlo e Kaddish di Allen Ginsberg. Santificando il profano e profanando il sacro, tra merda, verità e dolore, i confini identitari iniziano a sfumare, gli sguardi di tutti si aprono, ridono, accolgono. Fino a spogliarsi, come fanno ad un certo punto due Adamo ed Eva del TDC, nudi di fronte a immagini pittoriche e scultoree della classicità che scorrono sul proiettore. Sta alla gente vestirli e svestirsi. A ogni capo che qualcuno mette loro addosso – cravatte per lei, vestitini per lui – ci si spoglia di un pezzo di identità (sessuale e non) socialmente imposto. Ecco allora che il pubblico è invitato a vestire anche se stesso con dei nuovi abiti – che si possono scegliere tra un’ampia ed eccentrica proposta di capi – dismettendo per un attimo i consueti panni uomo/donna, alla volta di un nuovo genere, di una nuova interrogazione di se stessi.

Ma la serata non termina qui e quel flusso di pura energia che scorre ormai tra tutti gli astanti, connettendo gente che non si era mai vista, viene nuovamente alimentato da un concerto che è un’altra sorpresa spiazzante. Sul palco salgono i Volkova Sisters, band dell’underground ungherese che unisce il gotico all’elettronica, in un’esplosione potentissima di sonorità che sembra scandire quel beat (battito) anticipato dalle parole di Ginsberg di qualche istante prima. La voce graffiante di Dalma Berger sembra un’eco che viene da lontano, da spazi remoti, oscuri e incazzati, cozzando con un sorriso dolce che rende il suo grido ancora più vero (del resto, siamo in Contraddizione). Al suo fianco Gergely Kováks scivola magistralmente sulle corde della sua Fender, mentre Dániel Sándor, sound designer, si occupa del mixaggio. Tra i Joy Division e i Siouxsie And The Banshees, tra le Coorosie e gli Aphex Twins, i Volkova Sisters fanno ballare la cupezza epilettica di Ian Curtis a ritmo di elettronica e suoni sperimentali. Come dei guerrieri della notte e delle note – con tanto di segni neri sotto gli occhi che Dalma dipinge sul proprio volto e su quello dei due compagni – completano lo scavo e la scomposizione iniziati dal TDC, frammentandosi e ricostruendosi ad ogni canzone.
Intanto, al loro fianco, prende il via un body painting sulla schiena nuda di una ragazza, che si trasforma in una tavolozza di colori, in un dipinto vivente. Così come, allargando lo sguardo, sembra essere la sala stessa: un’opera d’arte composta da soggetti che si muovono, che cambiano le pennellate, ritracciando, a ogni passo, movimento e sorso di vino, nuove linee, più morbide e sfumate.

Quel potrebbe succedere che.. è successo, qualunque cosa fosse, indefinita e indefinibile. Ognuno ha perso qualche pezzetto di sé – o meglio, dell’immagine di sé – per poi ritrovarsi sotto altre forme, sotto altre vesti, sotto altri linguaggi. Del resto, come ci ricorda una frase di William Burroughs comparsa a un certo punto sul proiettore, «qualcuno che sembra sempre la stessa persona non è una persona, è un personificatore di persone». E questi personificatori sono l’unica cosa che, per fortuna, il Teatro della Contraddizione non ha.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro della Contraddizione

Via della Braida 6 – Milano
Sabato 8 novembre 2014