La libertà in un monologo

Ci sono pietre così pazienti da ascoltare tutto ciò che non si può, non si deve, non si riesce a dire. Così racconta la leggenda della syngué sabour: per liberarsi bisogna munirsi di una pietra che prima assorbe tutte le rivelazioni e poi esplode in mille pezzi.

Con Pietra di Pazienza si materializza al Teatro Musco di Catania il testo di Atik Rahimi, vincitore nel 2008 del più importante premio letterario francese, il Goncourt, al cui libro – pubblicato in Italia da Einaudi nel 2013 – ha fatto seguito l’omonimo film del 2012 e oggi questa messa in scena.

Barbara Gallo, dando corpo e voce alla protagonsita, una donna afghana che aveva molto di non detto, sul palco sembra sola con la propria coscienza in una scena che è e rimane una stanza spoglia per un’ora, poche candele, uno sgabello, un ritratto, una tenda velata sullo sfondo, luci al centro: all’interno c’è la syngué sabour, che non è una pietra, ma un uomo allettato.

Lui, il marito della donna, il soldato sopravvissuto a una pallottola in testa che lei assiste per 99 giorni, è l’inerte personaggio interpretato da Oreste Lo Basso che balzerà in piedi solo dopo la chiusura del sipario.

Coperto fino al capo, l’uomo ha la bocca socchiusa e lo sguardo perso tra le travi nere. La donna, certa che possa ascoltarla senza interromperla, inizia a parlargli: sussurra, spiega e coraggiosamente urla. Solo gli spari quotidiani della Jihad e le visite dei soldati irrompono sul monologo che ogni giorno inizia, per rito e per fede, invocando il nome di Allah, Dio che ascolta, Dio che sa, Dio che vede.
Non le era solitamente consentito toccare il marito, ma adesso può sfiorarlo perché lui non può inibirla. E lei gli mostra le carni senza remore, gli parla all’orecchio come non aveva mai fatto, alternando le sofferenze alle tenerezze, i sogni mai condivisi alle paure nascoste, agli sfoghi emotivi, alle musiche di Capossela (Corre il soldato).
Che lui sia vivo lo garantisce solo il ritmo del respiro; e che sia stato praticamente assente, arrogante, distante per ben dieci anni lo rivela ad alta voce la moglie innamorata, ai piedi del letto.
La donna afghana, senza nome e con il rosario in mano, snoda i problemi mai discussi del suo rapporto conflittuale con il sesso, con l’amore, con la fede, con la famiglia, con la società e all’uomo, pietra paziente, racconta di un’infanzia segnata dalla violenza del padre che picchiava le figlie e le usava come posta in gioco. E se la sorella per una scommessa persa a soli dodici anni venne data in moglie ad un uomo di quarant’anni, lei è rincuorata dal suo destino, perché è andata in sposa a lui, un marito-eroe.
La veglia dà il tempo per raccontare al marito della quotidianità dei primi tre anni di matrimonio, passati sotto il tetto dei suoceri, senza mai conoscere né il piacere, né lui, il rispettabile soldato sempre impegnato a combattere nel nome della libertà. E le sembra una beffa che l’eroe dalle tre medaglie si ritrovi lì per un semplice sparo durante un’insignificante rissa tra conoscenti.

La moglie, giorno dopo giorno, perde ogni freno. Racconta che mentre lui combatteva, lo aspettava vergine; che, dopo anni di solitudine, al suo ritorno fecero l’amore per la prima volta. Erano coniugi ma ancora sconosciuti e lei non potendo rischiare di non dare evidenza della propria candida condotta, approfittò dell’anticipo mestruale per lasciar nelle lenzuola il sangue della sua purezza. Le prime confidenze iniziano allora a trasformarsi in un fiume di parole, un racconto senza controllo, uno sfogo macerato da troppo tempo in un bagno di silenzio, fino alla rivelazione più drammatica di aver dolorosamente dovuto concepire le due figlie dandosi a un estraneo, così riparando alla sterilità del marito, soluzione cui anche la famiglia era stata fautrice per metterli al sicuro.

L’uomo ascolta e assorbe l’andare in frantumi ogni certezza. Ma «se ogni religione è la rivelazione di una verità, allora noi con le nostre sofferenze e verità siamo la nostra religione, è difficile essere donne, ed è difficile anche essere uomini», dice lei, concludendo sul corpo pietrificato e illuminato del marito prima della chiusura del sipario. E lui l’abbraccia.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Musco

via Umberto I 312, Catania
dal 12 al 14 febbraio 2016,
ore 21.00, domenica ore 17.30

Pietra di pazienza
di Atik Rahimi
con Barbara Gallo e Oreste Lo Basso
elementi di scena realizzati da Franco Sardo
costumi di Mela Rinaldi
produzione di Associazione Nuovo Mondo