Dalla legge dell’amore a quella del terrore

Antigone è un mito che non si ripete mai. Forse perché sfida l’intelletto a spingersi oltre la ragione, nelle zone d’ombra più segrete, per far luce sulle stesse radici del pensiero e del sentimento, alla ricerca della verità.

Forse per questo Antigone interpretata da Maria Milasi, che mette in scena La tomba di Antigone di Maria Zambrano, riscrittura della tragedia di Sofocle, composta nel 1967, ci porta subito dentro alla tomba. Un grosso baule è al centro della scena, in un tunnel di buio e di luce che fa scorgere intorno pesanti sacchi di polvere o terra. Su questo scenario domina Antigone, vestita da sposa, dall’acconciatura demoniaca, ma anche zeffirelliana, drammatica, disperatamente letteraria, diversamente bella, eppure necessariamente vera, espressione di una vena teatrale profonda, impegnativa e impegnata, che ci fa strada nell’Ade, a luce di torcia.

A differenza della tragedia sofoclea, qui Antigone non si suicida, ma viene confinata nella tomba come dentro a un triste esilio per aver disobbedito all’editto di Creonte, dopo aver dato la “giusta” sepoltura al fratello Polinice. Ed è sempre così, ancora oggi risuona quello che diceva Aristotele sulla famiglia, eletta a luogo della tragedia per eccellenza: sul baule che sovrasta come una regina, ma in preda alle pillole prese per fugare il dolore, Antigone ci ricorda il suo meraviglioso e terribile destino. Nata per amare, non per odiare, cerca il suo amore lontano dai segreti che amano il silenzio e dalle bugie; Antigone si nutre della trasgressione delle regole terrene per obbedire alle leggi celesti, con tutte le conseguenze del caso, non ultima, la follia. Più vicina a Euridice che ad Antigone, la sua disperata ricerca della verità che dentro all’Ade lascia un’eco forte, la protagonista ha una “sua” bellezza nelle voci che arricchiscono l’interpretazione dell’attrice, già efficace di per sé, e nel raccontarci la sua storia, il suo dramma, che, sepolto nel passato, rimarrà per sempre un mistero.

Non si dà pace Antigone e in questo, il dramma, anche nella sua rilettura e messa in scena, resta rivoluzionario. Decide di scendere all’inferno per chiedere ragione di questo sangue e finché la storia non esca di scena, lasciando vivere la vita. Poiché “solo vivendo si può morire”, é la bellezza del testo che ci guida negli inferi, dove Antigone torna ragazza, a chiedere conto ai ricordi. Probabilmente quelli della stessa scrittrice che aveva trovato a Parigi, nel 1946, la sorella quasi in balia della pazzia dopo le torture naziste. Difatti c’è sangue e c’è guerra in quest’Antigone/Milasi quando sale in piedi sul baule a trivellare colpi di arma da fuoco su una scena insanguinata dalla luce che fa il corpo, e pure le coscienze, a brandelli nel richiamo attualissimo ai nostri tempi in delirio.

Il baule diventa trincea, la piccola torcia una mitragliatrice e il canto alla terra diventa una preghiera alla pace, che nasce dalla voce. Antigone non muore, come in Sofocle, finché non potrà dare parole all’orrore. La colpa di suo padre, il suicidio di sua madre, la sua diversità nel fare da guida al padre ormai cieco, il re mendicante, l’innocente e colpevole. Qui non si cessa mai di diventare figlie. Nella colpa, nel velo davanti agli occhi, che da sposa diventa un’arma che soffoca, rivelando il peso di essere madri. A gambe aperte sul baule, si consuma il parto evocato, non detto, scontando la colpa di essere figlia dell’errore o di padri che non sanno chi siamo, quando dovrebbero non solo saperlo, ma dircelo anche. Dircelo come gli sposi e i fratelli, che invece giocano a farsi la guerra, perdendo la vita.

Pillole, allora, per dimenticare e farsi più forti nel passaggio dalla legge dell’amore a quella del terrore. In una dimensione fredda, tra l’essere e il non essere, sopra la terra, non più dentro a essa, Antigone batte colpi sul baule come su un cuore che diventa un tamburo per sentire ancora la terra, con la gola secca e il cuore vuoto per la condanna: sepolta viva, non muore, ma andrà avanti così, né nella vita né nella morte. Come un fantasma che abita una tomba che è un nido, una culla, una casa. L’inevitabile approdo dove ti conduce l’aver tanto cercato la verità senza l’amore. Ha un fascino letterario questa Antigone che fa perdere la testa, come la sua, a rievocare la sventura che ha le fattezze di lumaca nelle tempie, battute a lungo per il sopraggiungere delle disgrazie che bussavano alla sua porta.

La sciagura ha gli stessi colpi del cuore e li ha fino alla fine, quando Antigone riceve la visita dei suoi cari. Prima di tutte la sorella Ismene, complice e pure antagonista nel rispettare fino in fondo le regole, quando Antigone le trasgredisce. Il padre, Edipo, prima giudicato aspramente per la sua sapienza, poi riscattato dal sacrificio di lei che dà il senso compiuto a tutta la tragedia. Infine, Anna, la nutrice che nella tragedia non compare, figura meravigliosa e materna a cui Antigone chiede il perché di tanta solitudine e disperazione. Infine, la madre Giocasta, sogno di purezza di ogni figlia che puntualmente si infrange. Poi l’Arpia, personificazione della vendetta, un originalissimo Americo Melchionda che dà una brillante prova di attore nell’espressività e nel linguaggio, annunciando ad Antigone la morte del suo amato Emone e rinfacciandole di non aver fatto nulla per evitarne la condanna.  È la tensione tra amore e razionalità, che si personifica come ragno del cervello, da estirpare, allontanare, rimuovere, prima che sia troppo tardi.

Eteocle e Polinice, i fratelli di Antigone, cercheranno di portarla via dalla tomba, farfalla che ha perso le ali perché senza musica, senza più parole, davanti alla morte e all’ineluttabilità di essere sorella ad entrambi, entrambi colpevoli di volere il potere rinnegando l’essere, la verità: meglio la peste, meglio non sapere. Perché ogni goccia di questa luce che piove dall’alto è come una luna di sangue, mentre la città dei fratelli è ancora lontana. Ogni goccia è un astro, una stella in un cuore diviso che bisogna che ancora digiuni per ritrovare se stesso nell’oscurità. Meglio parlare a uno sconosciuto, forse l’amore, la Terra promessa.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro della Chimera
Via Ripoli, 17, Castrovillari (CS)
sabato 14 ottobre 2023, ore 21.00

Antigone. Il sogno della farfalla
di Donatella Venuti
liberamente tratto da “La tomba di Antigone” di Maria Zambrano
con Maria Milasi, Americo Melchionda
scenografia Melis-Lazzaro
produzione Officine Jonike Arti
foto Carlo Maradei