L’eternità del mito nella radicalità dell’espressione

Recensione Clitennestra. Al Teatro Argentina di Roma, Roberto Andò affronta il mito di Clitennestra mettendone in evidenza la sua eternità e la sua complessità, in uno spettacolo radicale per tono e soluzioni sceniche.

Se tutto passa, se gli imperi nascono e crollano segnando il passo dei millenni e lasciando che le vite che popolano questo nostro piccolo pianeta si succedano generazione per generazione, per riconoscerci in quanto esseri umani abbiamo bisogno di qualcosa che va ben al di là delle mere connotazioni di ordine biologico e antropologico. A fondare la stessa antropologia, abbiamo a che fare da sempre con un assetto culturale che è più originario della stessa origine, e se qualcuno può ritenere si tratti dei sentimenti o delle emozioni, bisogna sempre tenere conto che queste non si pongono mai in termini di totale spontaneità, ma sono sempre il risultato di una struttura antecedente che è quella del “mito”.

È vero che il mito è scritto, raccontato, tramandato dalle civiltà, ma esso è anche il modo attraverso cui esse riescono a comprendere il principio fondativo, l’assoluto trascendente, la domanda senza luogo, senza tempo e senza risposta.

Tutto questo lo sapevano i Greci, che attraverso l’epica e soprattutto la tragedia proposero la trasfigurazione espressiva di ciò che c’è di più profondo, ammirevole ma anche demoniaco, nell’animo umano. I moderni hanno recuperato la lezione dei classici, anzi non l’hanno mai trascurata: pensiamo a Freud, che per fondare la sua psicoanalisi che mira a ciò che c’è di più profondo nella psiche non può non rifarsi proprio che a Sofocle. D’altronde, il mito per sopravvivere non può restare passivo, fermo, identico a se stesso: in questo paradosso, il mito è ciò che è e che è sempre stato, e che sempre sarà, ma al contempo anche ciò che non è mai uguale a se stesso nel trascorrere incessante del tempo e della storia. Uno scrittore come Colm Tóibín, dalla lontana Irlanda, in un suo recente romanzo dal titolo La casa dei nomi fa sua la figura tormentata di Clitennestra, l’anti-Penelope, la donna vendicativa che declina i rapporti sul piano della violenza bruta, proseguendo la catena di sangue della dinastia degli atridi.

Roberto Andò, regista e autore destinato a diventare un classico grazie ai suoi successi cinematografici e non solo, si appropria della rivisitazione di Tóibín per il suo Clitennestra, opera in scena al Teatro Argentina. Dopo il successo de La stranezza, Andò torna a una dimensione più cupa e distopica: l’impianto scenico, nonché le incursioni sonore e i costumi, esprimono al meglio quel “tempo senza tempo” proprio del mito, mentre le tonalità crepuscolari e soffocanti sono un segno della severità della riconfigurazione del mito. La Clitennestra grazie ad Andò – e soprattutto grazie alla sua interprete, una potente  Isabella Ragonese, eccessiva forse ma come lo è il mito in ogni tempo e in ogni sua forma – mantiene la sua caparbietà, la sua tenacia, ma esprime anche il suo infinito amore di madre, che dall’implorazione passa alla minaccia in un attimo. Agamennone non diventa un despota crudele, ma adducendo le sue ragioni prova un qualche brandello di pentimento, perché comprende la furia materna di Clitennestra, disposta a tutto – persino a sterminare la sua gente – al fine di salvare la vita di Ifigenia.

Mito infinito quello che si configura nel rapporto irrisolvibile di ragion di stato e ragione del cuore, che non a caso alimenta la forma delle narrazioni di ogni genere e luogo, a partire da Eschilo per arrivare al videogame e serie tv The last of us, per citare solo la più recente. Se l’Orestea rappresenta una della tanti fonti di ri-elaborazione del mito, a differenza di quanto fa Tóibín, Andò sacrifica quasi completamente il ruolo di Oreste, e perciò il matricino che darà avvio all’istituzione da parte di Atene dell’areopago e della giustizia umana per arginare le Erinni. Se Elettra e Ifigenia sono presenze forti nello spettacolo, con un Egisto e una Cassandra invece molto limitati e quasi inutili, anche la loro interpretazione però non permette ai momenti salienti di spiccare sul resto: tutto il tenore è potente, ma costante. Tutto è tenebra, tutto è urlato, tutto è furente. Forse, l’eccezionalità e la radicalità espressiva (tanto a livello performativo, quanto a livello visivo e scenografico), non consentono di percepire a pieno che si sta parlando di qualcosa di prossimo, normale, costante. Dovremmo essere in un palazzo reale, ma siamo in ambiente deturpato, sporco e trasandato, come in un film post-apocalittico, con i tubi arrugginiti a vista: se tale visione scenica è efficace, come lo sono i letti che scendono con delle funi dal soffitto, l’efficace non si mantiene per la durata dello spettacolo.

L’interpretazione degli attori e la loro straordinaria energia fisica sono l’incipit, lo sviluppo e la fine, così come le caratterizzazioni ambientali: è vero che il mito è costante, resta fermo, innerva eternamente tutto, ma raccontare il mito necessita di una dinamica, di una evoluzione, di un progresso per poter esplodere in tutta la sua carica di eternità imperitura. Piuttosto che farlo “esplodere costantemente”, sarebbe più efficace contenere ogni picco e lavorare per silenzi e sottrazioni, perché al mito, dal momento che è ciò che ci riguarda tutti più nel vicino e più nel profondo, basta poco per scioccare e lasciarci travolti.

Lo spettacolo continua:
Teatro Argentina
largo di Torre Argentina, 52 – Roma
dal 10 al 21 gennaio
orari: 10 – 11 – 12 – 16 e 19 gennaio ore 20.00; 14, 18 e 21 gennaio ore 17.00; 13 – 17 e 20 gennaio ore 19.00
(durata 1 ora e mezza senza intervallo)

Clitennestra
da La casa dei nomi di Colm Tóibín
adattamento e regia Roberto Andò
con Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Becheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini
coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini, Antonio Turco
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche e direzione del coro Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
coreografie Luna Cenere
trucco Vincenzo Cucchiara
parrucchiera Sara Carbone
aiuto regia Luca Bargagna