I padri che ingannano i figli, non sono più Padri

Cosa nasconde un’idealizzazione? Cosa della realtà è così indigesto da rifugiarsi in un mondo immaginario aspettando di vivere ove questo – se e quando – si realizzerà? Questa è la domanda che ci pone Commedia rossa, ultima creatura di Alessia Giovanna Matrisciano.

Tre militanti di Lotta Comunista condividono un appartamento. Ama è un ragazzo di vent’anni, dovrebbe fare sciocchezze, conoscere le donne, invece si ritrova a vendere il giornale Lotta Comunista porta a porta, come un comune piazzista. Nella sua opera di proselitismo si lascia ammaestrare (come farsi aprire al citofono?) dal quarantenne Luz, una sorta di padre putativo che sciorina la disciplina di partito come un freddo motivatore aziendale. Li ospita entrambi il già maturo Moschetti, benché sia appena deceduto, ma malgrado ciò appaia in veste di fantasma.

Al di là dell’intreccio, merito di Matrisciano è utilizzarlo per trattare l’ideologia politica alla stregua di qualunque idealizzazione religiosa (Geova sta a Lenin come i suoi testimoni stanno a Lotta comunista), come la ricerca di un fondamento teologico che nei protagonisti unisce individuale e sociale, essere umano e cittadino, ma anche Dio, che diviene lo stesso sia per il comunismo sia per il cattolicesimo. È un Dio che abita esternamente all’essere umano e che non potrà essere mai raggiunto se non in un aldilà. Per i cattolici è il paradiso, per i nostri eroi è la rivoluzione, alla cui dogmatica attesa non resta che nascondersi. È la soffitta in cui fingere di essere morti, in modo da poter incrociare furtivamente una donna, o giocare un euro al Lotto come fanno tutti, compulsando i sogni per distillarne qualche numero buono.

«Io vent’anni ce li ho adesso, non posso aspettarne cento per la rivoluzione» ribatte Ama contro ogni avanzamento di fede (la rivoluzione tra cento anni) che non sia un penoso ingaggiarsi nell’attimo, quel tentare hegelianamente di “riconoscere la rosa nella croce del presente”, assumendosi una contraddittoria ricerca a partire dalla propria “sacra” libertà soggettiva. La vita non ha senso in sé e il tempo non è la sua corona di regale potenza. Esiste solo il biglietto per una lotteria che inevitabilmente sarà deludente, così da dover scegliere tra due movimenti del tempo: comprare il biglietto e aspettare la rivoluzione, o gettarlo via, volgendosi piuttosto a quel caos chiamato vita. Ama realizza così che non si tratta di decidersi a contare (cento anni da ora), ma di smettere di contare: i giorni, i mesi, ogni Primo maggio di ogni anno, ma anche di contare su una verità che non sia pura contingenza.

L’aspetto più toccante dell’opera sulla scena è il tono malinconico e addolorato, capace di vivere appena al di sotto dell’ironia, come nella migliore commedia all’italiana (Una vita difficile di Dino Risi su tutte). La drammaturgia ne fa emergere a tratti il volto, per esempio quando il canto dell’Internazionale, iniziato col furore di prammatica, si conclude tra le lacrime di una disillusione rovinosa; oppure quando Ama confessa di aver dimenticato il compleanno di sua madre, il 30 aprile, che ora ha solo il significato di essere il giorno che precede il primo maggio. Aver dimenticato gli affetti vuol dire assumere il volto severo di chi ha una missione da compiere, e non può perdere tempo con debolezze borghesi. Forse l’essere umano è in queste debolezze, mentre quello che identifica sé stesso a una necessità storica, ne è solo un succedaneo vestito di verità morenti.
Ne deriva che la rivoluzione non è un fulmine che scende dal cielo in grado di colpire i “giusti”, ma la capacità per l’essere umano di andare oltre sé stesso, di vivere nell’attimo, giammai in una cattolica escatologia di salvezza differibile ad infinitum. L’evento è abitare le contraddizioni del proprio tempo, in cui a nulla vale sparare agli orologi (come pare facessero i rivoluzionari della Comune a Parigi), ma coprirli pietosamente sì, come fossero teche per un padre il cui solo valore di sostanza è “morire”, così da permettere alla civiltà di non restare ancorata a una promessa divinatoria, ma di costruirsi ogni volta da sé un fondamento, per quanto esposto a una instabilità tremante. «Sai cosa fa un padre che inganna suo figlio? Smette di essere padre» dirà Ama a Luz, quando scoprirà l’inganno prima di Ronchetti, poi di Luz stesso, entrambi crollati senza dignità nell’incapacità di abbracciare niccianamente la vita nel lato tragico e farne così un ponte con le nuove generazioni.

Per concludere (ma potremmo andare avanti ancora per molto) ci piace pensare che il Dio del teatro si sia preso una pausa, altrimenti la capacità drammaturgica di Matrisciano avrebbe “riguardo” più esteso. Tuttavia non importa, c’è il Fringe Festival, e tanto basta. Il successo si misura inseguendo le proprie ossessioni, alla ricerca di un assoluto che non c’è, ma che esiste nella nostra invitta pulsione a raggiungere il punto cieco dell’essere umano, allo stesso tempo inaccessibile ed esposto. La commedia “rossa” di stasera ci è andata molto vicino, il resto a nulla vale se non ad apprezzare momenti di teatro autentico.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Roma Fringe Festival
Teatro Vascello
via Giacinto Carini, 78, 00152 Roma
giovedì 21 luglio ore 20.30, venerdì 22 luglio ore 22.00

Commedia rossa
di Alessia Giovanna Matrisciano
con Marlon Zighi Orbi, Paolo Rossi, Lahire Tortora
regia e disegno luci Lahire Tortora
scene e costumi Marta Mazzucato
assistenza tecnica Fabio Berton