La coppia e la vita

La coppia al centro della scena. E la scelta di un figlio. E attorno noi, la società, la convenzione. Una prova interessante a contatto stretto con il quotidiano, con l’universale, con l’umano.

Buio. Postazioni incorniciate a led bluette prima del fondale. Rannicchiati, dentro, gli attori/personaggi. Come in piccoli alveoli, in procinto di operosità, e dietro, alle spalle, le quinte e lo scuro della struttura dell’Elicantropo, nel centro antico di Napoli, tra il decumano superiore e quello maggiore. Al centro della scena calato un forno elettrico, tenuto da cordame. Vestiti sparsi, corpo, visi, voce. Identificazioni. Identità. Le identità di possibili noi, qui dall’altra parte, che guardando il palcoscenico ci guardiamo. Probabilmente come non oseremmo. Senza fingere davanti lo specchio. Senza evitamenti, di fronte la coscienza struccata. E il sovrapporsi di situazioni, intimità, dinamiche e dinamismi ci raccontano chi siamo, anzi, lo bisbigliano. Si potrebbe anche fingere di non sentire…
Una coppia, la quotidianità. Una tranquillità economica a metà, il lavoro fisso di uno dei due (l’uomo) ma la persistente precarietà di una generazione per antonomasia tagliata fuori, che cresce senza potere mai diventare realmente adulta (si rimane figli; si rimane giovani agli occhi dei gerontocrati; si rimane adolescenti per lascivia; si rimane economicamente deboli per mancanza di possibilità professionali). Le relazioni. Sentimentali. Complicate, faticose. Ma solide, reggenti, quando il sentimento si consolida nell’unione, nella comprensione reciproca, nella cedevolezza di una parte, per amore. E il teatro a mettere a fuoco il sotterraneo, il non detto, o il soliloquio, quel parlare a sé profondamente glabro da mascheramenti sociali. Una squisitezza, in scena, l’alternarsi tra dialogo e soliloquio (diverso dal monologo, in cui la forma narrativa caratterizza la sostanza) veri e propri solipsismi funzionali al corpus dichiarato, o semplicemente utili al nitore del personaggio, e al suo incastro con il processo creativo e drammatico. Squisitezza segmentata da diversificazioni di registro chiare a soccorrere la comprensione dello spettatore. E uno stacco, un’alternanza, tra l’orizzontale e il verticale, a ricreare profondità, penetrazione.
Una coppia e la riflessione sulla prole. Sul desiderio di averne e l’esame di realtà, le aspettative, le paure, lo spettro di essere (ancora e eternamente) figli e i rapporti genitoriali vissuti (non sempre felicemente). Archetipi, topos. Ma non trattati con la solennità della pedagogia (verso cui il teatro, in genere, scivola quando non buono), nemmeno con la magniloquenza dell’epos (a cui è facile incappare in temi di risonanza sociale forte), piuttosto con l’onestà di una partecipazione sentita, biografica, che da soggettiva diventa universale. Piuttosto con la maestria di una conoscenza teatrale rodata in anni di esperienza e di studi, Evidente è il cenno teatrale modulato a regola d’arte, l’attenzione alla parte, i vocalismi nei giusti accenti a cadenzare l’aria di suono ritmico, oltre che di senso. La divisione degli spazi, per livelli di comprensione stratificati e facilitati. L’oggettivazione scarna ma originale, la soluzione adeguatamente teatrale, per cui si intende l’equilibrio semantico, di figura, di tridimensionalità, oltre che l’intelligenza della scelta. E poco importa se qualche volta si appiattisce tutto per troppo rigore di forma, sono nei. Nei sul corpo volutamente inspessito e ruvido d’uno spettacolo che come pelle vive risente della fatica delle relazioni e del tempo, delle scelte sbagliate, delle mancanze di affetto, dello sgualcito dolce che lascia la vita.
Mirabile Elvira Scorza nei panni della sorella del lui di coppia, nel ruolo della voce di coscienza terza a mediare le alterità duali. L’occhio altro sulle scene… Personaggio portatore di un’altra dimensione di coppia, in questo scrutare negli ingranaggi del sentimento e della sua concretizzazione domestica, quotidiana. Efficace Maria Silvia Greco, nel fare riaffiorare la geografia umorale, sensibile, peculiare della protagonista femminile. Considerevole, pensando a quanto non sia semplice sovrapporsi aderendo ad una precisa idea di personaggio/persona, e a quanto si sporchi inevitabilmente di proprio.
Si conferma Francesco, Ciccio, Aiello, uno dei più grandi artisti calabresi, fedele alla propria firma, cifra, di teatro, capace di coniugare guizzo e mestiere, stoffa e rigore, autorialità e maniera. Drammaturgo, Regista, attore, da più di vent’anni sulle tavole, e ancora a concedersi la bellezza pericolosa del dubbio, a non replicarsi in automatismi di rendita, a “lottare” ancora per una indipendenza artistica difficile da tenere in una terra (la Calabria) dei soliti ammuffiti padroni.
E noi, dall’altra parte, a sussultare. Per scene vissute, e da rivivere. Confondendo, vero e finto. Confondendoci, appena, per guardarci più a fondo.

Lo spettacolo è andato scena
Teatro Elicantropo

Vico Gerolomini, 3, Napoli

Dammi un attimo
drammaturgia e regia Francesco Aiello e Mariasilvia Greco
con Francesco Aiello, Mariasilvia Greco, Elvira Scorza
responsabile tecnico Jacopo Andrea Caruso
produzione Teatro del Carro (CZ)