Il simbolo dell’assenza

Tornano in scena (fino al 5 dicembre) a Napoli al Teatro Bellini i Vuccirìa Teatro con lo spettacolo David, debuttante al Campania Teatro Festival questa estate e prodotto da Fondazione Teatro di Napoli, Teatro Bellini in coproduzione con Napoli Teatro Festival, da un processo creativo durato due anni e mezzo.

Buio. La scena svelata. Nessuna parete, apparentemente. Una struttura in metallo, di sbieco. Uncini penzolanti da una trave. Un’altra struttura di profilo. Nessuna costruzione di fondale. Nessuna quinta. Si fa mentre si recita. O meglio, si rappresenta. Recitare è fingere una parte. Entrare in qualcuno e qualcosa per il tempo dell’atto. Rappresentare è oggettivare l’esistente. O l’invisibile.

In David a essere oggettivato è il vuoto. Un vuoto interiore, personale. Trasmesso in parole/poesie, liturgia drammaturgica e drammatica di un’assenza, l’incarnazione di una vita mai nata, di un dolore vivo.

Buio, i quattro attori davanti al boccascena. Un microfono sulla sinistra degli spettatori. Postazione vocale. Parole sgranate, abbigliate di fonia, percosse dalla tecnologia per incidenze altre.
I quattro attori davanti al boccascena e una dichiarazione d’intenti. A far nascere il patto tacito di mutua comprensione, di mutuo silenzio, mutua preghiera.
Joele Anastasi vibra le corde vocali. Una preghiera, rivolta a un “tu” assente. Di cui ci rende il corpo, eucaristico, morto, incompreso. E si va sul palco. A materializzare scene nate probabilmente dal processo di creazione, dal gesto interiore fatto materia, dal simbolo. Perché David è simbolo. Il resoconto di un’indagine sociale, sintetizzata nel ritorno all’uno, all’io, al solo. La solitudine organo fonetico di comunità. La solitudine a cui si torna come casa uterina.

Le scene si susseguono senza codificare un modello ad architravi. Senza organi pulsanti. Nemmeno convulse, ma nette, geometriche, artigianali, peccanti forse di artificio, necessario a non scadere nell’angusto, nel torbido, nello scosceso piano del piagnisteo, veicolando un certo tipo di contenuto. Scene dal retrogusto post/drammatico. Sincera firma di una compagnia affermata e in continua progressione. Strato magmatico di un sentire a sud – senza connotati identitari stretti – di un sentire altro figliato da percezioni non omologate.

Un’altra struttura scenografica – bagnata a seconda delle esigenze di scena da un impianto illuminotecnico corposo a ricreare luce fredda, significante – ripropone una vasca, amniotica, anche cenacolo, altare, ara votiva, simbolo. Perché David è simbolo. Di sangue, di scissioni involute, di pianto. Anche di arte. Quell’arte contatto tra vivi e morti. L’arte contatto tra passato e presente. E un futuro spettrale.

E le scene, messe in piedi sul filo di un singhiozzare tra passato, presente, realtà, visione, groviglio, grumo.
Le strutture che si scompongono e si ricreano, a livellare scenograficamente la comprensione, la manovalanza attiva dell’attorialità non costretta in personaggi ma libera di vivificarsi in sembianti. Corpi scolpiti e dentro gravidi. In divisa (citazioni autoriali…), ad affrancare un mestiere tenuto in sordina, mercificato.

L’approccio allo spettacolo necessita l’evitamento di un modello concettuale e discorsivo predeterminato. L’incomprensibile a discapito, evasivo, del somministrato, del chiaro per ammaestramento. Come il nome che portano in petto. Vuccirìa. Confusione. E dalla confusione il gesto, il corpo, la parola, l’immagine.

Buio. Luce fredda. Una madre che non parla più. Un padre maschio alfa. E il figlio. E i figli. Fiori. Di plastica. Musicassette. Anni ’70. Sculture. L’ethos in visi, in danze, in parole interrotte. Materia. Di dentro.

Dal foglio di sala, di Joele Anastasi: «David nasce dalla mia storia personale: è in primo luogo la rappresentazione ideale e artistica di “mio fratello”, ma è soprattutto il simbolo di una grande assenza. Attraverso le vicende di una famiglia che ha cristallizzato la presenza di un posto vuoto a tavola in un’ingombrante icona. (…) qui il regno dei vivi non è separato da quello dei morti; non esiste distinzione tra ciò che è stato e ciò che sarà ma si materializza soltanto ciò che ha la potenza di trasformarsi continuamente. (…) stabilire un contatto verso l’esterno. Per me l’Arte è sempre stata il tentativo di stabilire questo contatto, per riportare in vita sotto nuova forma ciò che mi sembrava irrimediabilmente perso o sepolto».
Luce fredda. Cambio di tono. Buio.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Bellini

Via Conte di Ruvo, 14 Napoli

David
drammaturgia e regia Joele Anastasi
con Joele Anastasi, Federica Carruba Toscano, Eugenio Papalia, Enrico Sortino
set designer Giulio Villaggio
aiuto-Regia Giuseppe Cardaci, Enrico Sortino
light designer Martin, Emanuel Palma
foto Dalila Romeo
video Giuseppe Cardaci
coreografia FerTango
scenotecnica Alovisi
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
co-produzione Napoli Teatro Festival
uno spettacolo di Vuccirìa Teatro