Giochi di specchi

Con De Living il regista tedesco Ersan Mondtag, prodotto da NT Gent, ci lascia una delle opere più interessanti del RomaEuropa Festival: una riflessione sulla società contemporanea, ma anche sulle fondamenta del teatro.

I momenti più alti e più “specifici” del cinema sono quelli in cui il racconto riesce a farsi concetto ed emozione con il mero concorso di immagini, suoni diegetici e colonna sonora, senza parole quindi: questo è, al di là delle ulteriori definizioni baziniane, il cinema colto nella sua forma più pura.

Il teatro non ha forse una specificità così chiara. Spesso si scomoda il nesso tra teatro e rito, che però, almeno negli ultimi decenni, sembra farsi sempre più pallido. Un teorico nonché artista attentissimo al discorso della specificità dei linguaggi quale fu Pier Paolo Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro datato 1968 arrivava addirittura a immaginare un «teatro di parola» caratterizzato dall’essere «frontale e democratico», come alternativa salvifica al teatro borghese e alle sue nevrosi innanzitutto stilistiche. A maggior ragione sorprende da parte di Ersan Mondtag, da più parti annoverato fra i maggiori registi del teatro tedesco contemporaneo, la scelta di rendere interamente muto il suo spettacolo De Living, fra i titoli più attesi del RomaEuropa Festival.

È difficile dire a cosa assiste chi assiste a uno spettacolo come De Living; in cui la scena è suddivisa perfettamente a metà, con la scenografia di un doppio salone, le cui stanze sono perfettamente simmetriche l’una all’altra quanto a oggetti di scena e arredamento. I dualismi non sono finiti: dopo un lungo silenzioso momento seguito da un’azione lugubre, colei che è apparentemente la protagonista, nella camera a destra, viene doppiata da una perfetta Doppelgänger nel salone “di sinistra”, ma a differenza degli oggetti di scena almeno per un primo momento le azioni dell’altra saranno tutt’altro che simmetriche.

Per tutta la durata dello spettacolo nessuna delle due pronuncerà una singola parola: la narrazione è interamente riservata ai gesti e ai movimenti sul palco. Ad avvalorare la sensazione che, linguisticamente parlando, De Living sia quasi più cinema che teatro arriva un’affermazione rilasciata dal regista nell’intervista ufficiale divulgata dai canali comunicativi del RomaEuropa. «Ci sono sicuramente dei film e dei video che sono stati ispirazione per creare la situazione base dello spettacolo», diceva Montdag. «L’allestimento della scena che si svolge al contrario è stato possibile grazie alle riprese», con una lunga fase di prove per mettere effettivamente in scena l’idea iniziale.

Facendosi forza del suo criptismo, De Living parte da un’idea di base semplice e dirompente: nel salone di destra, una giovane donna di colore dopo un lungo momento di stasi si suicida accendendo il gas e infilando la testa nel forno; morta lei, nel salone di sinistra il tempo sembra raggomitolarsi all’indietro: vediamo la donna nella sua quotidianità, dare da mangiare all’uccellino che tiene protetto in una gabbia. L’impressione che se può trarre è che vediamo la giornata della donna come se l’idea del suicidio non l’avesse mai sfiorata; Montdag però non tarda a scombinare ulteriormente le carte, innalzando il dualismo di fondo che guida la drammaturgia nell’assenza di testo a una sorta di fantasmagoria visiva, di coreografia, di gioco di specchi – fino all’esplosivo raggomitolamento finale, s’intende, e allo scavalcamento di campo “postumo” che ne consegue, col primo e unico contatto fra i due corpi gemelli.

De Living sembra una tela di Bacon in cui il grido viene spalmato lungo un’ora e un quarto di durata senza mai farsi suono; oppure, un quadro di Hopper in cui il dolore dell’attesa si fa esplicito e, in breve tempo, del tutto sopraffattorio. Eppure, un miracolo accade – ma è un miracolo interamente scenico, frutto di una coreografia se non di una vera e propria riflessione.
A questo punto è difficile non lasciare spazio alle parole di Montdag, più disponibile a parlare del proprio processo mentale e creativo rispetto ad altri registi di teatro. «Il soggiorno è un luogo che si suppone ancora privato. Nel suo libro Il declino dell’uomo pubblico, Richard Sennett descrive come, nel mondo moderno, la separazione tra vita privata e spazio pubblico è stata progressivamente eliminata, determinando la scomparsa sia dello spazio privato che dello spazio pubblico». Poi riallacciandosi a un tema particolarmente sentito in tempo di post-Covid: «allo stesso modo, i teatri si sono oscurati. Gli spettatori non hanno più potuto parlare l’uno con l’altro e il palcoscenico è diventato uno spazio che lo spettatore si limita a guardare. Su di esso è stata raccontata una storia sigillata, definita».

Tornano alla mente certi saggi divulgativi di Byung-Chul Han come La fine del rito o Società senza dolore, se non fosse che Montdag vuole farne prima di ogni altra cosa una questione specificatamente scenica: «la psicologia ha occupato il centro della scena mentre la morale e la trascendenza hanno perso significato». È evidente che Montdag voglia porre rimedio a questo decentramento.
L’alternanza che separa le due scene di De Living è in apparenza semplice: è quello fra la Vita e la Morte, che il regista prontamente provvederà a scombinare. De Living così riapre antiche ferite concettuali sul tema del doppio tragico, di quella diade di cui una metà è inevitabilmente destinata a sopraffare l’altra. Nella sua stratificazione però – nella scenografia gemella nessun oggetto di scena è posto a caso – De Living non disdegna neanche il sottotesto politico o coloniale: sul fondo della stanza troneggia una foto in bianco e nero del feroce Leopoldo II di Belgio, sulla quale sono appiccicati una barba e un paio di baffi posticci vistosamente simili a quelli di Marx; e al quadro di Leopoldo II di Belgio la variante “sopravvissuta” della protagonista rivolgerà una crassa risata, prima di ridere direttamente in faccia al pubblico. Se nell’intervista Montdag scomoda Il declino dell’uomo pubblico, da questo caustico pre-finale sembra essere messa in accusa – non a caso da una donna di colore – un’intera civiltà. Che si dà il caso sia la nostra.

Superfluo dire che in De Living tutto è apparentemente “senza spiegazione”. Il suicidio resta un mistero insondabile – ma la vita e la sua prosecuzione sembrano un enigma ancora più grande. Ancora una volta, nella dinastia senza storia che percorre la tradizione occidentale alla tragedia nel senso strutturale del termine, è l’emergere di ciò che soggiace il vero fulcro della costruzione drammaturgica di De Living. Stavolta questo ritorno drammaturgico del rimosso assume un valore squisitamente primigenio, quasi embrionale. Non è tanto il male di vivere il centro di tutto, il suo motore primo – è in gioco l’idea stessa di Possibilità. Possibilità che viene al tempo stesso riportata al grado zero ed estremizzata: in De Living, una donna può tanto decidere enigmaticamente di suicidarsi quanto mettersi a dare il mangime al suo canarino.

Da tempo immemore si parla di crisi, se non di morte, del teatro, come se le drammaturgie contemporanee fossero destinate giocoforza a essere ombelicali – come si leggeva pochi giorni fa su Facebook – un gioco di specchi di teatranti che si rivolgono ad altri teatranti, o, nel migliore dei casi, a una critica pericolosamente specializzata. In larga parte è vero. Eppure, spettacoli come De Living, o anche come The Garden di Fanny & Alexander, da soli bastano a rendere questa una delle migliori edizioni recenti del RomaEuropa Festival. Spettacoli di un tale rigore linguistico, di una così feroce pregnanza concettuale garantiscono per il futuro del teatro – con la loro modernità, con il loro parlarci, con il loro inquietarci a proposito di sensazioni e questioni tanto legate al nostro presente quanto ancorate a ciò che è universalmente umano.

Ciò che è particolarmente fecondo di De Living è la sua smarginatura, il partire da un impianto dualistico chiaro, netto e provocatoriamente apodittico per mettere subito in crisi ogni binomio, ogni opposizione schematica, fosse anche solo drammaturgica. Peraltro, i due soggiorni non sono perfettamente e completamente speculari: in quello di sinistra, quello per intenderci “della Vita”, fa capolino una testa bronzea di un cavallo con cui la “metà sinistra” della protagonista interagisce nel corso dello spettacolo.

La radio, i rumori esterni, l’horror vacui della carta da parati: la nostra protagonista è anche lei una «suicidata della società»?

La scacchiera che compone il motivo bianco e nero del pavimento delle due stanze vuole simboleggiare quello che sembra, che la vita è a mosse libere ma obbligate, regolamentate?

E perché i canarini continuano a cantare?  Cosa ci fa in questo post-realismo un cavallo di bronzo? Nietzsche vagando in queste regioni s’imbizzarì.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del RomaEuropa Festival
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini, 78, Roma

De Living
regia di Ersan Mondtag
con Doris & Nathalie Bokongo Nkumu (Les Mybalés)
drammaturgia di Eva-Maria Bertschy
scena e costumi di Ersan Mondtag
disegno luci di Dennis Diels
props di Thierry Dhondt, Pierre Keulemans , Flup Beys Michiel Moors, Freddy Schoonackers
prodotto da NT Gent con La Villette, Theaterfestival Boulevard, Kunstenfestivaldesarts, HAU Hebbel am Ufer, con il supporto del Belgian Tax Shelter e del Goethe Institut