Dalla tragedia greca a quella quotidiana

Nella Sala Di Bartolo di Buti Dario Marconcini mette in scena la fine di Troia, attraverso la voce e il corpo di Ecuba (interpretata da Giovanna Daddi) e il prologo affidato a Leonardo Greco.

Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij ci introduce – insieme allo sfondo con una donna velata di bianco (colore funebre in molte culture) tra le macerie di una qualunque città devastata dalla guerra – al breve prologo di Greco, che presenta la protagonista (in gramaglie) e l’antefatto: Troia brucia e solo le donne restano a piangerla mentre si preparano a diventare esse stesse spoglie per i vincitori.

La voce di Daddi ci riporta a quell’antica vicenda a metà strada tra poesia e realtà, mitologia e storia, trasformandola – con i suoi ritmi e le sue pause cariche di significato – in qualcosa di tangibile come le dure pietre sulle quali Ecuba è inginocchiata. Lei che ieri sedeva su un trono e orgogliosa vantava i suoi figli come prodi guerrieri e le figlie come future spose reali, oggi è ridotta in schiavitù.

La capacità della parola poetica è anche quella di restituirci immagini di passati splendori ma la realtà può essere ancora più atroce. Quando il corpo del piccolo Astianatte è portato in scena e posato ai piedi di Ecuba, sappiamo che rappresenta non uno ma tutti i bambini che sono quotidianamente sacrificati sugli altari del potere geo-strategico neo-colonialista – dallo Yemen alla Siria, entrambi ormai da 11 anni in guerra, dalla Palestina che piange la nakba da 74 anni fino agli ultimi 8 anni in Donbass.

L’insensatezza di quel corpo esanime è pari solo alla impotenza di Ecuba, di lei come donna e madre, di lei come simbolo di tutte quelle donne e madri che nulla contano sulla scacchiera mondiale – ieri come oggi. Siamo tutte e tutti pedine e, come tali, sacrificabili. Ma per quanto Troia si sia eretta con le sue torri a toccare il cielo, anche la più orgogliosa ora perisce tra fiamme e macerie. E, come sappiamo, ad attendere Agamennone vi sarà la vendetta di Clitemnestra per l’uccisione di Ifigenia; ad attendere Ulisse, tanto scaltro quanto senza scrupoli, istigatore del sacrificio della giovane, le Colonne d’Ercole – e di lui non resterà traccia, nemmeno un corpo da seppellire in una tomba che per gli antichi significava tanto. Nessun potere è eterno. Solo chi è in cima al mondo può illudersi di non rotolare mai a valle. Ma è illusione.

Il testo portato in scena da Marconcini è ridotto all’osso, l’essenza del dolore delle Troiane di Euripide, tagliato e cucito alla perfezione per una Giovanna Daddi in stato di grazia.

L’epilogo però spetta al regista: il Deus-ex-Machina, come nella tragedia greca, che si cala dall’alto sulla scena per risolvere la contesa, qui porge a noi il più difficile degli enigmi: come può un attore trasformarsi in personaggio? Come può essere in grado di suscitare in noi una tale emozione, che nemmeno lui o lei dovrebbe provare? È l’arte della scena o dell’inganno? È solo illusione o è la capacità dell’attore di scavare nell’immaginario collettivo? «Suit the action to the word, the word to the action, with this special observance: that you o’erstep not the modesty of nature» («Accordate l’azione alla parola, la parola all’azione, osservando specialmente di non oltrepassare la semplicità della natura», William Shakesperare, Amleto, Atto terzo, Scena seconda, traduzione di Simona Frigerio). 

Nel weekend lo stesso tema – la tragedia della vita – va in scena al Fabbricone di Prato. Fratellina, con la drammaturgia di Spiro Scimone e la regia di Francesco Sframeli sembra dare voce agli ultimi.

Vi è molto Samuel Beckett in questo spettacolo che dura circa una quarantina di minuti. Ridotto all’osso. Come piaceva anche all’autore irlandese che preferiva, però, scrivere in francese i suoi lancinanti atti unici.

Vi è un senso profondo o palese per questa solitudine, questa incapacità di reagire, questo lento affossarci in un presente senza futuro, senza speranze, senza compartecipazione?

Mentre la pubblicità, sulle nostre tv, inneggia a «Tutti insieme possiamo fare grandi cose. Perché il meglio del futuro è nella comunità», ritorna alla mente che solo pochi giorni fa la Corte Costituzionale ha affermato il contrario. Esistono persone che non hanno diritto nemmeno all’assegno alimentare: chi non si è vaccinato resta un paria. Non ce lo dimentichiamo. Come non ci dimentichiamo che il green pass tuttora esiste – il lasciapassare verde che è servito a trasformare una pandemia in endemia.

Tutti insieme, nell’armadio, verso il Sol dell’Avvenire? Il finale è fiacco. Poco credibile. Se Troia è in fiamme, il nostro mondo è ormai carbonizzato.

Gli spettacoli sono andati in scena:
Sala Di Bartolo
Buti (Pisa)
venerdì 9 dicembre 2022,  ore 21.15
Ecuba, la cagna nera
da Le Troiane di Euripide
con Giovanna Daddi
e Leonardo Greco
cameo Dario Marconcini
scene e luci Riccardo Gargiulo e  Maria Cristina Fresia
drammaturgia e regia Dario Marconcini
musica da Le Sacre du printemps (Весна священная) di Igor Stravinskij
produzione Associazione Teatro Buti

Teatro Fabbricone
via Ferdinando Targetti, 10/12 – Prato
domenica 11 dicembre 2022, ore 16.30
Fratellina
di Spiro Scimone
regia Francesco Sframeli
con Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Cesale, Giulia Weber
scene Lino Fiorito
costumi Sandra Cardini
disegno luci Gianni Staropoli
assistente alla regia Roberto Zorn Bonaventura
in collaborazione con Istituzione Teatro Comunale Cagli
produzione Teatro Metastasio di Prato, Compagnia Scimone Sframeli
(prima assoluta)

Nella foto: Una scena di Fratellina, al Fabbricone di Prato, domenica 11 dicembre 2022