Recensione Glory Wall. Premiato come Miglior spettacolo de La Biennale Teatro 2020, Glory Wall è andato in scena al Teatro Vascello. Un muro di 12 metri separa completamente il palco dalla platea: un’enorme pagina bianca piena di fori da cui sbucano le braccia, le mani e le bocche degli attori che non si mostrano mai a corpo intero. L’interazione tra le voci fuori campo e alcune trovate paradossali danno vita a uno spettacolo effervescente, ma convenzionale.

Glory Wall di Leonardo Manzan e Rocco Placidi nasce su commissione e affronta il tema della censura scelto da Antonio Latella per il 48. Festival Internazionale del Teatro – Biennale Teatro di Venezia. Gli sceneggiatori, coinvolti nell’esibizione anche come attori, portano in scena un copione spregiudicato e spassoso, a tratti sovraccarico e moraleggiante, esplorando la rete di rapporti semantici che si instaura a partire dal concetto di censura. Il controsenso da cui si parte e su cui ci si sofferma – forse un po’ troppo a lungo – all’inizio dello spettacolo, riguarda la dimensione ossimorica della censura: parlare di essa è impossibile, così come rappresentarla a teatro. La parete bianca, prima di lasciarsi perforare dall’interno e animare dalle performance di mani, polsi e braccia, si trasforma in uno schermo digitale, sul quale la Censura – divenuta per un attimo soggetto autonomo del copione, oltre a esserne l’oggetto specifico – scrive di se stessa. Ma ecco sopraggiungere, implacabile, l’assurdo logico, l’incoerenza di un discorso che mentre si fa si autodistrugge: se la Censura racconta se stessa e i suoi meccanismi, si annulla come censura e si configura invece come un’operazione di verità, ovvero di dis-velamento (è questo, come aveva già osservato Heidegger, il significato originario della parola greca aletheia). Glory Wall si dispiega attraverso una serie di registri visivi e testuali che non perviene a comporsi in un quadro d’insieme: si passa dal figurativo contemporaneo al pop e al fumetto, dalla visionarietà poetica all’ironia tagliente, dall’onirismo alla smaccata trivialità (la prolungata minzione finale). Questa mirabolante scorribanda tra generi letterari e stilemi dell’immaginario, tra citazioni d’autore (primo fra tutti, il Beckett di Non io e di Quella volta) e differenti supporti mediatici ha l’effetto di essere piacevolmente allucinata ma anche inutilmente spaesante. Il pubblico ride e riflette, in un’alternanza di serio e faceto che rivela un sapiente uso dei tempi dell’attenzione. Una luce dall’alto del muro convoca alcuni spettatori a recitare i ruoli di tre grandi censurati della storia, Giordano Bruno, Galileo Galilei, Pier Paolo Pasolini, obbligandoli a prendere parte a un dialogo immaginario, le cui battute però sono già scritte. Glory Wall vorrebbe mostrare, in forma immaginifica, ironica e provocatoria, il processo di riconoscimento della censura che è in noi, della censura che è costitutiva del teatro di oggi, indicandoci la strada di una possibile emancipazione attraverso l’arte. L’azione teatrale, sulla scia di Beckett, è privata del suo elemento costitutivo, la presenza corporea degli attori, ridotti a essere “bocche” o “mani”, ovvero delle parti che stanno per il tutto, dislocando la concentrazione del pubblico dalla comunicazione linguistica al dato visivo, anche grazie all’illuminazione dei riflettori. In fondo, anche la sineddoche è una forma di censura, di condensazione o di spostamento, come avviene regolarmente nelle deformazioni oniriche.

Ora, in linea di principio, tutti siamo a favore dell’eliminazione della censura: autorità politiche, morali e religiose, potentati economici, in breve, Super-io individuali e collettivi, più o meno consapevoli e compatti, la impongono di continuo e di essa ci vorremmo liberare, come se fosse un nemico ben identificabile e sopprimibile, quando invece è ambiguo e onnipervasivo. Anche Glory Wall cade in questa facile trappola, nonostante le buone intenzioni: il teatro, così come il sogno, l’ordine discorsivo, il sintomo nevrotico, il delirio sono i campi d’azione privilegiati della censura che non può essere tematizzata in quanto tale. Di essa è possibile sapere qualcosa solo in après-coup, e cioè grazie ad un lavoro retrospettivo di ricostruzione interpretativa, che non può – e non deve – risolvere ogni scarto, ogni resto in una narrazione chiara e distinta. Per giunta, la censura non è sempre un male, giacché talvolta ci aiuta a capire di più: lo stesso Freud, stranamente assente nelle disparate riflessioni degli autori, approfondendo il lavoro del sogno, aveva dichiarato che la censura è “il guardiano della nostra salute mentale”, nonché la prova del fatto che la coscienza è “un organo di senso che percepisce un contenuto che si dà altrove” (Interpretazione dei sogni). La censura, a dispetto del mainstream, è una manovra psichica necessaria: si può tentare di decifrarla per allargare le aree della nostra consapevolezza, nella certezza – per certi versi rassicurante – che mai tutto verrà alla luce e che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. La censura lascia delle tracce (come i fori della parete bianca) che in parte rivelano e in parte nascondono. Essa richiede un metodo indiziario per essere neutralizzata, ma qualcosa può emergere in primo piano solo a condizione che qualcos’altro rimanga sullo sfondo: quello che più conta è il gioco di luce e oscurità. Se il Teatro è una manifestazione essenziale dell’Essere, non chiediamogli di rivelare la verità intesa come adeguazione alla realtà né come autotrasparenza soggettiva, ma – parafrasando Heidegger – lasciamolo essere Lichtung, variamente tradotto con “radura”, “schiarita” o “apertura”, dove i concetti di “luce” (Licht) e “diradare” (lichten) entrano irriducibilmente in tensione: il luogo aperto della luce è liberato dall’oscurità che però non cessa di produrre effetti sullo sfondo; allo stesso tempo, il diradamento è tale perché continua a comunicare con l’oscurità del fitto.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini 78, Roma

Glory Wall
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Leonardo Manzan, Rocco Placidi, Paola Giannini e Giulia Mancini
regia scenografie Giuseppe Stellato
light designer Paride Donatelli
sound designer Filippo Lilli Leonardo Manzan
produzione La Fabbrica dell’Attore -Teatro Vascello, Elledieffe