Don Milani è ancora vivo

I Chille de la balanza. 50 anni di teatro. Festeggiati a Napoli. Da dove tutto cominciò, nel 1973.

Per la passione di Claudio Ascoli, figlio d’arte, che poco più che adolescente abbandona la Silvio D’amico per «mancanza di autonomia», e torna a casa, e a Port’Alba (la strada dei libri tra Piazza Dante e Via dei Tribunali) fonda il suo di Teatro. Il nome è quello dei venditori ambulanti di frutta e verdura (balanza probabilmente è il dialettale di bilancia, la vecchia bilancia di rame con cui si pesava la mercanzia), teatranti inconsapevoli, o naturali, che a sera nelle osterie raccontavano cosa accadeva per la strada. Vanno in giro per tutta Europa, i Chille de la balanza, come i commedianti dell’Arte e a metà degli anni ottanta si trasferiscono in Toscana, a Pontassieve nel fiorentino e da lì – siamo quasi al duemila – a San Salvi, l’ex città manicomio di Firenze dove a tutt’ora risiedono.

Per l’occasione il Teatro di Napoli ha ospitato dal 12 al 15 ottobre una serie di eventi a tema, incontri, laboratori, spettacoli.

Sulla scena un paio di panche parallele ai lati del proscenio, del materiale sparso in fondo, un fondale scuro, un pannello per proiezione. Una video intervista a Pasolini interrompe il buio. Dice di Don Milani, del libro Lettera a una professoressa da cui lo spettacolo prende vita. Ed è l’unico inserto multimediale della messinscena. Il resto, parole. E dalla parola alla carne. Al gesto, al movimento, all’artigianato di un mestiere o una seconda pelle, per artisti come Ascoli nati col teatro nel sangue. E quando entra in scena, non può non percepirsi l’agio con il quale sta in gioco. Da buon padrone di casa frantuma tutte la pareti per ospitare, accogliere il più possibile.

Perché il luogo deve essere abitato, non ci si deve sentire troppo terzi o spaesati e anche qualora fosse una scelta registica distanziare lo spettatore, è il coinvolgimento emotivo a determinare una buona riuscita. E il teatro riesce se si fa accessibile. Se diventa circolare. Se la smette di essere un vezzo borghese e di volere somigliare alla tv, a ciò che non è. Se si smette di volere somigliare a ciò a cui si dovrebbe replicare – quando non è possibile opporsi -, ossia il malcostume, la mancanza di democrazia, le imposizioni di corte, le corruttele, il clientelismo, qualsiasi forma di oppressione alla libertà, ai diritti, al vivere sociale. Se si smette di replicare il sistema. Utopie. Come quelle di Don Milani, e l’utopia realizzata (realizzabile?) della scuola di Barbiana, una scuola giusta, una scuola per i non istruiti o gli impossibilitati all’istruzione, una scuola che non premia il “merito” ma cerca di colmare la difficoltà, la carenza, ponendo la formazione nella sua finalità pura, originaria, nutrire menti, fornire strumenti per non essere decapitati dall’ignoranza e diventare pupazzi in mano ai pupari.

Ma non è la solita storia raccontata in scena, no. Non è un patetico revival del personaggio o a rinfocolare memoria, no. Si portano in proscenio quattro spettatori, li si mette al lavoro (costruire un enorme tavolo a incastro, progettato volutamente in questa maniera dal padre di Ascoli per riunire tutta la famiglia nel desinare e il racconto dell’aneddoto è generoso, motivo di affezione), mentre una serie di oggetti vengono disposti sulle assi a tavolo compiuto, e ogni oggetto porta una storia legata a Barbiana, alla scuola, a Don Milani.

Passano un paio d’ore. E di certo lo spettatore moderno non è abituato a un consumo che non sia vorace, fugace, Qualche dissapore, qualche stanchezza. Ma un senso di comodità, di comfort lento, assaporato, autentico, che induce di conseguenza a un tipo di scrittura – in questo resoconto – bizantina, accurata, narrante.

I virtuosismi tecnici, recitativi, persuasivi, di costruzione, registici, vocali, sonori, eufonici, anche di catarsi, sarebbe semplice descriverli, smembrando lo spettacolo e sezionandolo analiticamente. Ma «nessun esercizio è così deprimente di quello che induce a perlustrare le molle e i congegni meccanici su cui si basa qualsiasi forma artistica» – cit. R. L. Stevenson. – Basti cogliere l’entusiasmo degli applausi a fine rappresentazione, l’edonismo dei partecipanti sotto la luce naturale, senza artificio, senza trucco e cotillon, senza trappole esclusive agli occhi dei pochi, sempre più pochi, addetti ai lavori che si parlano da soli. Teatro. Puro. Fatto di ricerca, di storie vere e cercate oltre i libri, oltre i copioni, ascoltate, avute a cuore. Fatto di parola. Parola che ha un suono. Poesia in forma di cose. Fatto di mani, di ombre, di memoria, di pelle invecchiata con le polveri delle tavole. Un teatro fatto per davvero. Fingendo.

Risuona il credo di Don Milani, la riflessione quanto mai attuale sulla scuola che «è diverso dall’aula del tribunale, dove vale solo la legge stabilita. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico. Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è di obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservare quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate».

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Mercadante
P.za Municipio, 80133 Napoli
venerdì 13 ottobre 2023

I Care. Lettera a una professoressa
liberamente ispirato al libro collettivo degli allievi della Scuola di Barbiana, curato da don Lorenzo Milani
di e con Claudio Ascoli
con la partecipazione di Sissi Abbondanza, Monica Fabbri
musiche originali Alessio Rinaldi
luci Teresa Palminiello
suono Francesco Lascialfari
video Francesco Ritondale