Amore tossico

Dalla vita al palco. La storia di un noi. Dai vissuti di Margherita Romeo Messeri. Se l’amore fa male. E il teatro a mostrare le pelle nuda, la crudità delle ferite.

Luce naturale. Un divano al centro della scena. Un tavolino da soggiorno al lato. Sopra, il bricco del caffè, quaderni, disordine, rimasugli di vita. Quella vita aderente a scelte nette, senza troppo ubbidire a convenzioni sociali, assecondando le vocazioni all’arte, alla libertà. Quella vita che appare e scompare da due paia di quinte prima del fondale scuro. Quella vita che si lascia guardare da noi dall’altra parte in cerca di pace, e di uno specchio.
Julio, girovago saltimbanco spagnolo, libertino e appena trentenne. Bea, sulla soglia dei quaranta, artista di strada, attrice, madre. Si incontrano, si uniscono, si fanno male. E in scena si fanno feticci di una condizione comune. Come il teatro sa fare, dall’uno all’unisono. Rappresentare ciò che accade. Ciò che accade per davvero. Facendo finta.
Da una storia vera, autobiografica, le disfunzioni di un amore tossico, che amore non è, piuttosto uno sfamarsi dell’altro, fino alle ossa, e ancora, alla polpa. Noncuranza, considerare l’altro come movente per propri (s)lanci, o propagazione degli indottrinamenti educativi ricevuti, riproporre il modello da cui si proviene e che si è accettato a malavoglia. Predare e fare vittime. In una corrispondenza speculare. L’alternarsi di ruoli.
E non è facile mettere in scena questo bosco di inquietudini e malformazioni psicologiche. Si sceglie allora, in questo caso, di mostrare le piccole scene quotidiane verosimili al reale, mostrare lo squallore delle vicende, contornando con poco cenno, destinando profondità al luogo, alla scena spazio di risonanza fonetica, di riflessione comune. Il linguaggio confidenziale, di tribù, contesti urbani di cui se ne sente voce senza sfiorarci, noi spettatori impegnati a guardarla la vita e desiderarla quale non riusciremo a compierla. Battute secche, senza troppa interiorità, e le figure fisiche manifestanti l’oggetto scarnificato, crudo, senza troppo artifizio. Evidente l’abitudine all’esibizione di strada, pubblica, in cui catturare l’attenzione senza avere il tempio di persuadere ad una propria cifra, ma comunicare qualcosa di immediatamente pubblico, popolare. Così la struttura drammatica si rifà a stilemi fondamentali – lo scandire tempo e registro tramite interruzioni illuminotecniche; i flashback per l’intreccio; la caratterizzazione contrapposta dei personaggi e relativa bataille; l’unità di luogo e continuità narrativa; alternanza di recitazione orizzontale-verticale; l’intellegibilità subitanea – per veicolare un grido d’allarme, un monito. Il teatro testimonianza per sensibilizzazione, per indicare pudicamente una via d’uscita, e identificare quando il sentimento offusca la capacità di giudizio.
Una storia comune. Che nonostante rimanga di frequente poco penetrante, stagnante nella solitudine della parola in dialogo destrutturata da un contorno soddisfacente e capace di diversificare l’attenzione, provoca corposi moti emozionali. Di dissidenza, di affezione, di umanità. E non è questo lo scopo, tra gli altri, del teatro? Provocare moti spontanei. Apprezzabili nei tentativi autentici, volutamente crudi per motivi d’urgenza, fuori dalle pose. Così come per strada, tra tribali, ci si riconosce senza maschera e l’azione, significa un fare comune.
Nei gesti dello spettacolo il linguaggio del corpo a smentire la parola di circostanza, l’aritmia del segno capace di verità assolute.
Uno spettacolo potente e imperfetto. E la perfezione non appartiene a queste latitudini. L’imperfezione fa l’uomo fedele a se stesso.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Elicantropo
Vico Gerolomini, 3, 80138 Napoli
22 febbraio 2024

Julio e Bea, una favola tossica
regia Margherita Romeo Messeri
con Francesco Nappi e Margherita Romeo