Io sono io soltanto per caso

L’ormai storico duo Barletti-Waas porta in scena la rielaborazione di Peter Handke della figura di Kaspar Hauser, più vicina a Wittgenstein che a Herzog.

Simbolo senza tempo di una certa nozione di estraneità radicale, sin dal 1833 quando trovò la morte, la figura di Kaspar Hauser è stata oggetto di innumerevoli trasposizioni letterarie, teatrali e cinematografiche, non ultimo La leggenda di Kaspar Hauser del grande regista tedesco Werner Herzog. Certo una figura così non può non affascinare: comparso dal nulla in una piazza di Norimberga, affermava di essere sempre cresciuto rinchiuso all’interno di una cella, prima di essere stato misteriosamente liberato ormai venticinquenne. Tra il 1828 e il 1833, prima di essere ucciso in un attentato tanto misterioso quanto la sua apparizione, Kaspar suscitò l’interesse di tutta Europa, facendo in tempo a veder sorgere il dibattito, che dura tuttora, per dirimere l’indecisione se fosse tutto una truffa o una dolorosa storia vera. Tra i molti che si sono confrontati con questa figura emblematica, c’è anche lo scrittore e sceneggiatore tedesco Peter Handke, recentemente insignito del premio Nobel per la Letteratura, e il suo testo teatrale Kaspar viene adesso portato in Italia dal duo italo-tedesco Lea Barletti e Werner Waas, in lingua originale con i sovratitoli italiani.

«Lo spettacolo Kaspar non dimostra come stanno veramente le cose o come sono andate veramente le cose con Kaspar Hauser. Esso dimostra cosa è possibile fare con qualcuno. Esso dimostra come qualcuno possa essere portato a parlare attraverso il parlare. Lo si potrebbe anche chiamare una tortura di parole», chiosava Handke parlando della sua drammaturgia e da questa affermazione i Barletti-Waas hanno derivato il nuovo titolo del loro spettacolo, Kaspar (ovvero una tortura di parole).

Difficile dire se nello svolgimento del dramma sono più le parole a torturare, oppure a essere oggetto di tortura: fatto sta che la scena sembra quasi ipostatizzare la condizione di prigionia del giovane Kaspar, vedendolo imparare “le parole” da un brusco precettore prima invisibile, confinato in una voce fuori campo, poi interagente con lui sul palco, in una lunga coreografia di posizioni. «In una frase ci puoi stare comodo» è l’ideale punto d’attacco di una lunga escursione nel linguaggio e nelle sue aporie. La figura di Kaspar Hauser, interpretata da Lea Barletti, è a metà strada tra un Pinocchio sui banchi di scuola e un Pulcinella ondivago: il senso di scomposizione che il personaggio porta con sé, quasi un’antitesi vivente al principio di identità, è ben evidenziato dal disegno luci, che a più riprese ne moltiplica le ombre.

Fondamentalmente in Kaspar (ovvero una tortura di parole) si parla nientemeno che della nascita del linguaggio, su un piano ontico che facilmente può diventare anche filogenico. «Vorrei diventare un tale come già un altro fu» è la frase, ripetuta ossessivamente per tutto il primo atto dello spettacolo, da cui Kaspar e il precettore partono per affrontare il linguaggio come un qualcosa di estraneo, con una dissociazione già potenzialmente schizofrenica tra parola e significato che porta alla formulazione di una serie di paradossi e di giochi di parole; alla fine, dopo una lunga elencazione di luoghi comuni – il linguaggio normativo? -, Kaspar approda a un tautologico, e minacciosamente biblico, «io sono colui che sono». Attraverso il linguaggio, sotto la guida attenta e un po’ subdola del precettore tedesco, Kaspar sembra prepararsi alla vita che lo attende «fuori dalla caverna», una volta uscito dalla prigionia: non per nulla le ultime parole dello spettacolo, pronunciate dai due in italiano e a bordo palco con le luci in platea già accese, sono proprio «non credo più alle parole»/«sono stato trasportato nella realtà», prima che i due interpreti tacciano lasciando emergere un silenzio tanto diffuso quanto insostenibile.

Kaspar (ovvero una tortura di parole) va in scena per coincidenza nello stesso momento in cui l’Adelphi porta in Italia Operatori e Cose, memoir di una schizofrenica vissuta nell’America degli anni cinquanta che si firma come Barbara O’Brien: nell’attitudine nei confronti del linguaggio, e in generale dei rapporti di sorveglianza, sarebbe fruttuoso un confronto tra questo cult sui generis della letteratura psicopatologica e Una tortura di parole. Capzioso e ferale, il dialogo tra Kaspar Hauser e il suo precettore forse carceriere si dispiega per un’intera ora e mezza di spettacolo, affidandosi interamente alle parole senza che sulla scena “accada” niente in termini di azione: una situazione di scacco, di paradosso/skandalon e quindi “ostacolo” anche fisico, ma al tempo stesso una narrazione di crescita, di maturazione, per cui il precettore educa Kaspar alla vita a prezzo di una sua esautorazione integrale – verrebbe da dire alienazione – nelle parole, e solo in certe parole e soprattutto frasi. Il testo di Handke e la resa registica dei Barletti/Waas forse sono un po’ macchinosi nella loro impostazione di fondo, ma al tempo stesso tentano un’operazione di semiotica “a cuore aperto” quale raramente si tenta nel teatro odierno, e nel teatro in generale.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Palladium
Piazza Bartolomeo Romano 8, Roma
dal 9 al 10 dicembre
ore 20:30

Kaspar (ovvero una tortura di parole)
tratto da Kaspar di Peter Handke
di e con Lea Barletti e Werner Waas
collaborazione di Iacopo Fulgi e Harald Wissler
produzione di Barletti/Waas
con il sostegno dell’ItzBerlin e.V.
con il contributo del Forum Austriaco di Cultura