Arriva alla sua seconda edizione il Catania Off Fringe, festival di teatro che sposa e porta nel capoluogo etneo il carattere indipendente, “emergente” e sperimentale di un format internazionale.

L’inclusione nel circuito internazionale del World Fringe; l’ospitalità in 25 location convenzionali e non; compagnie e artisti esterni ai percorsi istituzionali; la possibilità di innovare il formato scenico-drammaturgico, permettendo di assistere a una pluralità di generi (dalle commedie ai drammi, dalle performance al teatro fisico e “oltre”): su queste coordinate, Catania ri-presenta il proprio Fringe Festival e, con esso, l’opportunità di vivere autenticamente l’intensità di un’esperienza performativa che unisce le arti dal vivo a tutte le latitudini del globo.

Grazie a una programmazione densa che prevede la visione giornaliera di più eventi e alla partecipazione di realtà di diverse nazionalità, il Catania Off Fringe, analogamente a quanto accade in Scozia e in Australia, negli Stati Uniti e in Canada, nel resto d’Europa, in Africa e in Asia, incarna i crismi di un momento potenzialmente straordinario per la crescita culturale, economica e sociale di una intera comunità. L’atmosfera festosa e informale offerta da uno staff aperto e competente, la disponibilità degli artisti all’interazione con il pubblico e la presenza di molteplici eventi collaterali (discussioni, workshop e spazi di socializzazione) completano il quadro di una proposta, la cui novità ovviamente avrà bisogno di tempo per esprimere tutto il proprio appeal, ma che sembra già avere le carte in regola per far scoprire alla scena isolana voci nuove e approcci inediti al/del mondo del teatro e per offrire un ambiente favorevole all’esplorazione creativa, così facendo del capoluogo etneo, almeno per qualche settimana, il centro regionale delle arti performative.

La presenza di Persinsala si è limitata a due sole giornate di programmazione, di questa parzialità avvisiamo da subito i nostri lettori, e la nostra attenzione si è concentrata su Medusa di Ivano Torre, r/Place di Matteo Sintucci, Uroboros e Akmé di Sabino Barbieri e Nuria Argiles, Muta-morfosi di Sara Lisanti, Marina. Nemmeno io sapevo di essere un poeta di Tatiana Stepanenko e Journey to the Kingdom of Hypnos di Carmel Clavin.

Ivano Torre e Valentina Barri sono i protagonisti di quello che viene presentato come un’«opera multimediale, tratta dalla mitologia greca “Medusa”, un tripudio di musica, suoni, movimento corporeo, voce e recitazione», ma le difficoltà di far coincidere quanto anticipato a quanto realizzato sono evidenti fin dall’ingresso in sala. Se la confusione risulta l’unico fil rouge della performance, ciò non sembra accadere per una qualche forma di consapevole progettualità estetica: Barri/Gorgone si dimena con un velo che inizialmente la nasconde e da cui si svela simbolicamente vestita di nero, ma i suoi movimenti sono forzatamente scoordinati – anche nella gestione scenica – e il palco si ricopre, senza motivo, di oggetti. Dalla cuffia e dalla maglia (tolti per lasciarle libera una chioma “medusea”, ma non il corpo, comunque coperto da un top) al suddetto velo, dalla carta appallottolata (lanciatale da Torre) ai rifiuti (che, a un certo momento verranno anche indossati), la sua azione è più quella di uno studio teatrale ancora lontano dall’aver inquadrato la propria “rotta” formale. Nulla o poco aggiungono le musiche del compagno, la cui mono-tonia si appesantisce continuamente di ripetizioni e sonorità poco evocative, soprattutto se inquadrate nella dialettica con i movimenti del corpo scenico.

Più significativo, invece, Muta-morfosi di e con Sara Lisanti. In questo caso, abbiamo una drammaturgia visivamente riconoscibile (sul tema del necessario cambiamento a cui il tempo espone l’esser-ci), tra l’altro posta in un suggestivo parallelismo tra esistenza e arte. Lisanti organizza la propria presenza attraversando tre quadri accompagnati dalle didascalie HI, AHI, I e, dopo essere apparsa in scena velata (HI è la prima pelle, quella che nasconde da ogni sguardo e relazione), entra in una sorta di incubatrice completamente avvolta da pellicola trasparente. Questa è una seconda pelle, quella da cui liberarsi, con grande sforzo e fatica, per uscire dalla scatola in cui era rinchiusa, anche a costo di un sacrificio di sangue e dei propri “inutili” capelli (il primo realmente estratto con una siringa e i secondi rasati). Nuda, ma con dei cinturini neri su polsi e caviglie, unica veste rimasta intatta dal precedente “parto” (AHI), Lisanti è in piedi fronte al pubblico ed è adesso si palesa una seconda attrice (non citata nella scheda dello spettacolo) che inizia a prendersi cura di lei, colorandole il corpo fino a “battezzarla” con della tintura dorata. Lisanti, durante il cerimoniale, cambia espressione, il suo viso – fino lì contratto – è adesso più rilassato e, con l’uscita di scena della compagna, può finalmente concentrarsi su sé stessa (I), svelando, in conclusione, una bambola con la muta del rettile domestico dell’attrice, mentre una voce registrata restituisce la morale dello spettacolo (di cui lasciamo al pubblico il piacere della scoperta). Stucchevole nella ricerca dell’effetto di “maniera”, banale nelle musiche e vagamente ingessato nei movimenti, Muta-morfosi rappresenta comunque il momento di “sincerità” di una performer, anche se avrebbe potuto beneficiare di una maggiore competenza tecnica ed espressiva per non risultare privo di profondità e autoreferenziale.

Con Uroboros e Akmé si entra nel controverso territorio della danza contemporanea. Difficile da distinguerli significativamente dal punto di vista stilistico, i due step coreografici disvelano energia, chimica e fluidità di coppia, nonché omogeneità dettata da continui parallelismi dei movimenti e da una sistematica ricerca del bilanciamento tra corpi molto diversi (erculeo lui, delicata lei). Quello che manca al movimento è però l’alta qualità, tant’è che non sempre è chiaro il passaggio di registro (nel caso di Uroboros) ed è pericolosamente scontata la ripetitività dei quadri (in Akmé). In assenza di una tecnica robusta, a farla da padrona è la componente ritmica e una tensione cercata vocalmente con le continue (ed evitabili) urla di sofferenza di lui. Eccessivamente declinato su dinamiche in up, con pochi contrappunti tersicorei, se, al momento, l’ambizione sembra eccessiva, al giovane duo e alla sua complicità va tuttavia riconosciuta una significativa intensità e affinità estetica, il che lascia ben sperare per il proseguo del loro percorso.

La straordinaria epopea di una immensa poeta enucleata direttamente attraverso i suoi versi è protagonista di Marina. Nemmeno io sapevo di essere un poeta. Rispetto al «clamoroso ed efficace esempio di trasfigurazione scenica della controversa assurdità di una vita dedita all’arte, quella di Marina Cvetaeva, nonché, se non soprattutto, di dilaniante rappresentazione metaforica dell’esistenza umana» (Easy to remember, ricci/forte), in questo caso siamo di fronte a una rappresentazione didascalica. Figura anticonformista, priva di devozione (perché completamente dedita alla poesia) e religiosamente adorante di null’altro che delle Muse, lo struggimento d’amore e d’arte di Marina trovano nella declamazione di Monica Massone un’enfasi alla lunga insostenibile, solo in parte bilanciata dalla controparte coreografica che si materializza prima nella vibrante e passionale Giorgia Zunino e poi nella maggiore staticità di Tatiana Stepanenko (rispettivamente, una Marina prima combattiva e poi sconfitta).

Meno pretenzioso, ma meglio studiato e pianificato, è Journey to the Kingdom of Hypnos di Carmel Clavin. Immerso nel racconto in cuffie di Clavin e privato della vista da una mascherina, lo spettatore si trova – per la giusta durata (circa 30′) e con la giusta dose di virtuosismi (effetti sonori, canto, profumi, metafore) – condotto in un viaggio guidato tra ricordi e oblio: tra Mnemosyne e Lethe, spetterà poi al singolo decidere con chi intraprendere un cammino che la propria coscienza dovrà compiere nella più “perfetta” delle solitudini, quella in compagnia di sé stessa.

Concludiamo con il progetto “virtualmente” più interessante della kermesse, r/Place, uno spettacolo che riprende l’omonimo esperimento della piattaforma Reddit nel 2017. Interessante, innanzitutto, lo è per il materiale drammaturgico iper-contemporaneo proveniente dall’universo digitale, ma convince anche per la sua esperta gestione da parte di Matteo Sintucci, che svolge il triplice ruolo di autore, regista e attore. Sintucci ha dimostrato lo stretto legame anagrafico con il contenuto stesso dell’opera, poiché, come afferma, «la vicenda di “r/Place” racconta in ogni suo momento un riflesso digitale del nostro io analogico, quotidiano, storico», ma è illuminante far notare come, immerso in questo riflesso, l’artista ne subisca in modo acritico il fascino.

Non entreremo nello specifico della narrazione poiché ripercorre sostanzialmente l’esperimento Reddit e l’incedere di Sintucci ha la piacevole dote della suspense. Quello che preme sottolineare è come, nel restituire teatralmente r/Place, Sintucci accetti de facto la sostanziale sovrapposizione post-moderna tra il mondo analogico e la realtà virtuale, identificando nelle trasformazioni determinate dall’apparato delle nuove tecnologie una vera e propria protesi e non una “semplice” forma di integrazione del linguaggio e dei modi del pensiero. L’approccio ideologico implicito di Sintucci e del suo alter ego in video (l’utente Reddit, Arturo Gutierrez) mostra un esempio di assorbimento inconsapevole nelle modalità dell’attribuzione del senso determinata dai nuovi media: se le relative tecnologie, ormai pienamente assimilate nell’ecologia della comunicazione in tempo reale, incidono sul rapporto intimo dell’essere umano con l’Altro e fanno saltare i confini tra naturale e artificiale, è per questo che Sintucci e Gutierrez possono prendere “sul serio” le dinamiche di guerra e diplomazia, nonché le relazioni e gli individualismi che hanno caratterizzato lo svolgimento di r/Place, accorgendosi solo marginalmente quanto possa essere una ingenerosa “mancanza” l’omologare gli scontri e le vittime digitali a quelle reali. La Rete rappresenta ormai uno spazio antropologico in cui si sviluppano una vasta gamma di attività, tradizionalmente riservate all’interazione dal vivo, come l’aggregazione e l’attivismo, l’apprendimento e la conoscenza, il lavoro, i sentimenti e le crisi: bisogna però stare in guarda nel considerare queste circostanze tecnologiche come sostitutive delle pratiche sociali concrete, nonostante ormai ne integrino il significato.

Il virtuale non è intrinsecamente migliore, più autentico o preferibile rispetto al reale, anzi rispetto alla vita dei soggetti, la sfida posta dal virtuale, che lo spettacolo non problematizza in alcun modo, consiste nel richiedere una riconsiderazione critica del suo rapporto con la realtà socio-culturale, magari vigilando sull’aumento dei condizionamenti di autorità “invisibili” a cui la rete è esposta (troll, fake news, haters). Le soluzioni “cosmetiche” create dagli utenti di r/Place (come la bandiera europea all’incrocio tra quella tedesca e quella francese, il cappello messicano sulla papera) e il loro impegno nel coordinarsi per “resistere” ai tentativi di un suo annientamento (il Void, l’onda blu) non dovrebbero illudere che si tratti effettivamente di attività nel reale, dal momento che la responsabilità autentica non passa da un gioco dove, in fin dei conti, non si rischia nulla (per esempio, la “vittoria” del Void non avrebbe comportato assolutamente nessuna conseguenza reale, se non la frustrazione personale di aver perduto a una sfida online).

Guy Debord è forse il contestatore più noto e coerente di un mondo ridotto a spettacolo, in cui persino la sua critica è “diretta” dallo spettacolo stesso. Bisogna fare attenzione a non accettare tacitamente che il web abbia sostituito completamente l’esperienza umana concreta: sebbene la realtà sia ormai in buona parte formata e trasmessa attraverso il digitale e il web, questa reciprocità merita di essere attenzionata perché, se rovesciata nelle priorità, potrebbe far cadere nella trappola dell’alienazione (per esempio, dalla Web Addiction all’Hikikomori). Il progetto di Sintucci cattura il lato oscuro di questa condizione e, nel non averlo adeguatamente individuato e trasfigurato, dunque nella sua maggiore “criticità”, è allora possibile riscontrare le potenzialità di un lavoro che, dal punto di vista esecutivo, fa della semplicità espositiva il suo maggior pregio.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno del Catania Off Fringe
location varie
Zo Centro Culture Contemporanee
Piazzale Rocco Chinnici, 6 Catania

Open – Creative Workspace
via Porta di Ferro, 38 Catania

Sala Hernandez
Via S. Lorenzo, 4 Catania

Medusa
Regia Ivano Torre
Interpreti Ivano Torre, Valentina Barri
Luci De La Greca
Musiche Ivano Torre
Costumi Gabi Correl
Produzione MOVIMART LAGOTINA

Muta-morfosi
Autore Sara Lisanti
Regia Sara Lisanti
Interpreti Sara Lisanti
Luci Sara Lisanti
Musiche Sigur Rós
Costumi Sara Lisanti (nudo scenico)
Produzione Sara Lisanti

Uroboros e Akmé
Autore Sabino Barbieri e Nuria Argiles
Regia Sabino Barbieri e Nuria Argiles
Interpreti Sabino Barbieri e Nuria Argiles
Musica originale creata per il musicista Leonardo Carletti
Produzione Associazione Artemis Danza

Marina. Nemmeno io sapevo di essere un poeta.
Autore Tatiana Stepanenko
Regia e Coreografia di Tatiana Stepanenko
Interpreti Monica Massone, Tatiana Stepanenko, Giorgia Zunino
Musiche Autori vari
Costumi Tatiana Stepanenko
Produzione Quizzy Teatro di Monica Massone

Journey to the Kingdom of Hypnos
Autore Carmel Clavin
Interpreti Carmel Clavin
Musiche Tom Illmensee
Produzione Spectacle & Mirth

r/Place
Autore Matteo Sintucci
Regia Matteo Sintucci
Interpreti Matteo Sintucci
Luci Matteo Sintucci
Musiche di Matteo Sintucci e altri artisti
Costumi Matteo Sintucci
Produzione Matteo Sintucci