Poesia visiva

Recensione La Luna. Rovistare nell’immondo psicologico di una comunità per ricavare una idea di mondo, di società, un senso perduto, identitario, pubblico. Dall’indagare un tema, quello del “rifiuto” – nelle accezioni oggettive, intime, di aggettivazione verbale – alla scena, trasformando il pensiero, l’auto-biografia, la confessione in azione animata, figurale, in teatro. È La Luna, di Davide Iodice, alla Sala Assoli di Napoli.

È là, dove prende forma (anche) lo scarto, il messo da parte, il non conforme, per una società producente rifiuti inorganici e umani, quando cosa non aggrada viene buttato, o rotto, o dimenticato. E la luna, emblema romantico di luce altra, nella sua vacua comparsa a dare raccolta ai cumuli del ripudio. La luna simbolo di alterità al sole, regina del buio, a cui metaforicamente è connesso l’estraneo inquietante, a cui si rivolgono poeti, ubriachi cantori alle persiane, conforto per gli esuli, per i viandanti su mari senza approdi.

Una decina di attori, filari di lucine fanno da soffitto luminoso (drammatizzazione delle illuminazioni dei vichi, dell’esistenza nelle strade vecchie e contorte di città, ma anche, lucine lapidarie, a dare lustro a piccole morti quotidiane, senza pianto), fari a bandiera alle pareti laterali, in alto, a dare luce di taglio e profondità, intensità, diversamente dai bagliori, come luci fredde crepuscolari, tendenti a non visualizzare completamente, ombreggiare, ricreare intimità. Il fondale aperto, inesistente, via d’uscita e prolungamento percettivo a non fissare, non chiudere, sovrapporre all’accaduto, perché dagli accaduti si materializza, di materia viva, carne e gesto, voce (di fuori campo) e immagine, sul palco. Dai racconti personali dei partecipanti al lavoro collettivo nato qualche anno fa in Accademia di Belle Arti a Napoli (a proseguire il meraviglioso laboratorio della Scuola Elementare del Teatro portato avanti da Iodice da molto tempo) il processo creativo messo in scena con la grafia autoriale, poetica, immaginifica di un regista tra i più dotati del contemporaneo. Capace di rendere l’azione/immagine particolarmente adatta al mezzo audiovisivo di rappresentazione e renderne l’impressione in originale tratteggio, specifica scelta di movimento e corporeità, gesto carnale, tecnica e poesia. L’orma di un artista fedele e “traditore” della sua maniera, sinceramente devoto alla sua vocazione, da riproporne con attenzione e dedizione severa. E incantare.
Prendono vita feticci, personificazioni di incubi esistenziali, ballerine stropicciate, identità stuprate da un indotto senso di vergogna, poveri cristi agghindati dal folclore popolare, abbandoni, emarginazioni, aborti. Perché scartare è abortire qualcuno, dal ventre della polis che accetta e marchia di codice a barre i “possibili”, i “sani”. E la voce dei reietti è destinata alla prosa lunare.

Rettangoli di plastica di sacchi d’immondizia fanno da struttura scenografica e d’azione allo spazio di scena. Movibili. A identificare drammaturgicamente ambienti di contesto e percezione. Il segno grafico, fisico, del corrispondersi silente tra attori e spettatori. Plastiche di sacchi di immondizia, d’azzurro imperante, il colore simbolo di una città, che non si associa qui né al cielo, né al mare.

Qui, in questo altrove. Dove attori non professionisti riescono a sentirsi a proprio agio, evitando pose, forme, performance, ma restituendo la carne povera della loro confessione. A cui la maestria del regista ridà senso, armonia, gloria (la gloria effimera e irripetibile di un assolo disperato). Perché risuoni, nella memoria, negli occhi, nelle scene quotidiane di chi si pone in ascolto. E sente, oltre ad assistere.

I quadri, le scene, scorrono non slabbrate l’un l’altra, ma nette nelle mutazioni di registro. Tornano elementi di chiarificazione semiologica via via livellati in diversi piani di proiezione. E il rifiuto di sé diventa collettivo, gli oggetti abbandonati riportano a galla possibili strade, qualcosa lasciato da una persona perduta fa rivivere corpo e anima, nel lutto. Qualcosa che ci appartiene, qualcosa che riguarda l’intera comunità. A cui corrispondere e specchiarsi, ma che sia anche propulsione per nuove azioni. Siano pure nei limiti di una coscienza inespressa.

E gli sguardi di questi attori non professionisti verso punti non identificati della platea, i visi deformati dalle maschere inconsapevoli dell’agire di scena, qualcuno sente gli occhi addosso, altri si dimenticano completamente d’essere attori, per impersonificare l’altro, l’astante, il vicino, il prossimo.

Una voce di fuori campo, registrata dal raccontarsi intimo delle voci raccolte, fa da narratore non didascalico. Poesia visiva. Per spettatori non ipocriti.

Lo spettacolo è andato in scena
Sala Assoli – Casa del Contemporaneo
Via Medina 24 – Palazzo Fondi, terzo piano, Napoli
17 novembre 2023

La Luna
un percorso di ricerca e creazione a partire dai rifiuti, gli scarti, il rimosso di una collettività
ideazione, drammaturgia e regia Davide Iodice
produzione Interno 5 / Casa del Contemporaneo con il sostegno di Campania Teatro Festival e Teatri Associati di Napoli
aiuto regia Ilaria Scarano
con Francesca Romana Bergamo, Veronica D’Elia, Fabio Faliero, Lia Gusein Zade, Biagio Musella, Damiano Rossi, Ilaria Scarano, Fabrizio Varriale
training e studi sul movimento Fabrizio Varriale
spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
direzione tecnica Antonio Minichini
scenotecniche Luciano Di Rosa
luce e suono Sebastiano Mazzillo
allestimento Fabio Cosimo
foto di scena Cristina Ferraiuolo
direttrice di produzione Hilenia De Falco