Stasera recita l’Eros

Paolo Spaziani si cimenta in un corpo a corpo con la raccolta di poesie L’Archangélique, di Georges Bataille, del 1943.

Nudità è la prima parola suggerita dalla scena (il bellissimo teatro Hamlet) e poi dal corpo che ci aspetta seduto mollemente su uno sgabello al centro del palco. Nudità è la parola che si attacca alle sensazioni dello spettatore quando Paolo Spaziani si muove, sempre mollemente, ma agitato dalla voce che sembra provenire da un abisso. Bisogna aver parecchio coraggio estetico per permettere al proprio corpo di dar voce a questi disillusi terremoti dell’esistenza, quando ci si risolve a liberarsi di sicurezze sociali e polizze vita, per abbracciare questo vortice in cui amore (amour) e morte (la mort), che in francese si omofonizzano, divengono la stessa cosa, attraversando il corpo ferito a cui eros si offre come perplessa e solo provvisoria cicatrizzazione.

Spettacolo folle, intenso, questo di Spaziani. La sensazione chiarissima è che non abbiamo davanti a noi un interprete ben addestrato a riferir testo d’altri, a far cronaca sociale, a rassicurare di una solida ontologia. Non c’è teatro qui all’Hamlet, almeno nella sua accezione di spettacolo. C’è il luogo, teatrale in senso religioso, di uno sguardo e di un ascolto, in cui la contemplazione a cui è chiamato il pubblico si fonde con un oggetto (la morte) con cui non si vuole aver nulla a che fare. L’esperienza estetica è quella di essere voce con quella di Spaziani, di essere corpo con lui, un corpo solo voce, voce senza corpo, voce che tra francese e italiano cerca la propria assenza, il proprio fallimento incarnato, la propria caduta. Spaziani diviene per noi voce senza parola, parola senza cosa, cosa che è in ultimo la cosa, indenotabile, indicibile, quella morte a partire dalla quale ogni parola non centra mai il bersaglio, innanzitutto perché non c’è alcun bersaglio da colpire. Non resta che essere colpiti, precipitare tra denti e «lingua morsa tra i denti», lingua che rinuncia a dire, ma non a far l’amore con la morte, come in un bacio alla francese dato a una bocca senza volto.

La morte non fa che ricaricare il linguaggio senza mai farsi linguaggio. Dire morte e essere morte è la stessa cosa? Certo che no, ed è proprio questo scarto, questo avanzo scuro, lo spazio dell’attore, il luogo in cui Spaziani fa avvenire qualcosa, qualcosa che esce da ogni canonizzazione, da ogni forma, da ogni modalità, per accadere come accade una tempesta, o un vaso sulla testa. La ripetizione, ossessiva, implacabile, dello stesso lemma opaco, senza immagine che non sia un suono significante (la mort), fa iniziare la caccia ad altri corpi a cui attaccarsi, come in un rispecchiamento oscuro, un amplesso osceno.

Emerge la voce, soprattutto: Spaziani la sporca, la sostiene quando serve, per lo più la scaglia languidamente come un sasso contro il pubblico, a guisa di uno stanco lanciatore di coltelli (parole affilate come lame spuntate). Il corpo dà l’idea di giocare eroticamente col pubblico; la sua voce è un invito a un lascivo equivoco di sensi in cui piacere e dolore si fondono. Parola, corpo, erotismo, morte: sono bilie colorate lanciate da un giocoliere straccione a un semaforo rosso. Eros esiste per dimenticare la morte e allo stesso tempo per morire godendo della fine. Quando a teatro c’è questo eros negativo succede qualcosa, ma a condizione di essere nudi e trarre il pubblico a un adescamento che lo spoglia a sua volta, in un abbraccio che è a dire: niente si può dire, se non ripetere parole sganciate dal senso, attirate come falene dal sole nero di una fine che si libera di un fine. Conta solo essere corpi che chiedono pace, nell’amore come nella morte, che si rimpallano una fine senza volere nient’altro, prima di ricominciare a giocare con chi è disposto a questa nudità, a questo rischio, a questa assenza, a questa consumazione aberrante, oltre la quale non c’è nessun orizzonte promesso.

Michel Foucault definiva Bataille nel 1970 «uno dei più importanti scrittori del secolo» e se è vero che il filosofo francese sfugge in tutte le direzioni, Spaziani lascia briglia sciolta al suo discorso poetico, spingendolo fino ai limiti del delirio mistico, accompagnato solo da un mozzicone di chitarra capace di pizzicare corde strozzate. L’attore stasera dà letteralmente corpo alle poesie bataillane come a denunciare la vera essenza dell’uomo, solo e tremante in questo cosmo caotico, ente tra enti, tutt’altro dal soggetto padrone compiaciuto e monodimensionale che prenderà forma politica nei fascismi del primo Novecento. È il brutto, l’informe, l’inclassificabile, che è degno d’attenzione: alla bella forma, bisogna opporre solo il suo scacco. Spaziani non elude questo principio e stasera ci ha dato una dimostrazione di grandissimo teatro solo a partire da un corpo che per reggersi in piedi non fa che aggrapparsi con la voce al pubblico, come uno sciancato che trascina il suo arto deforme, di moto o di parola fa lo stesso. È questa verità che cerchiamo a teatro e stasera Paolo Spaziani ci ha permesso di esserne toccati come in una dis-grazia inaspettata.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Hamlet
Via Alberto da Giussano 13 Roma
23 gennaio 2023, ore 21

La morte ride
con Paolo Spaziani
testi di George Bataille
regia di Letizia Corsini