Dov’è il mistero oltre le parole?

Recensione La roba. Una delle più celebri novelle di Giovanni Verga, La roba, arriva al Teatro Pirandello nell’adattamento di Progetto Teatrando.

Giovanni Verga è un gigante della letteratura mondiale, non solo italiana o verista. Autore classico e moderno per la capacità di far convergere nella sua opera l’indagine sociologica con importanti riflessioni antropologiche e culturali, Verga è ormai riconosciuto come un innovatore della lingua italiana al pari di Alessandro Manzoni. Anzi, se la letteratura del lombardo diede l’impulso decisivo al formarsi della sintassi e del lessico dell’italiano ufficiale, quella di Verga implementò la necessaria comprensione di un fenomeno, quello linguistico, che vive autenticamente solo nella sua contestualizzazione. Fatta di codici (scritti e non), proverbi e modi di dire, la conformazione regionale della lingua rappresenta infatti il momento in cui il verbo si incarna e diventa significativo: le parole dette, e quelle non dette, acquisiscono uno spessore, un valore e una vitalità che spesso la letteratura, e il teatro, rischiano di perdere a favore di altre funzioni – per lo più, relative all’aridità comunicativa. Verga comprese mirabilmente come il linguaggio non servisse solamente a veicolare contenuti standardizzati e come le parole potessero paradossalmente essere rivolte a sé stessi: anche per questo l’autore siciliano fece un massiccio uso del discorso libero indiretto, di cui La roba è una superba espressione.

Verga descrisse ne La roba una Sicilia co-stretta tra voglia e impossibilità di riscatto. Mazzarò, ex bracciante divenuto grande latifondista, ne è il protagonista: accanto a lui, il testo non prevede veri e propri personaggi, ma si dilunga nella descrizione dei luoghi e della sua personalità. Mazzarò “merita” tutto quello che possiede, ha iniziato da zero e, piano piano, è riuscito a far sue terre e proprietà a perdita d’occhio. Arance, fave, olive, animali: l’inquietante presenza della roba è la vera antagonista di questa vicenda. Il “conflitto” tra “lei” e “lui” è implacabile, il vincitore scontato: la prima è interminabile da accumulare, il secondo invece ha una data di scadenza e proprio dall’ansia di non riuscire mai a possederla tutta, di doverla infine lasciare, scaturisce il respiro scenico di questa pièce.

Mazzarò, nella drammaturgia di Micaela Miano, è attorniato da comprimari, braccianti, povere donne o pastori, che per il protagonista sono mezzi per arrivare alla roba. Va precisato che non sono roba anch’essi (in quanto non hanno “valore”), ma Mazzarò ne reifica la personalità rendendoli strumenti da utilizzare (o sostenere) finché utili alla causa: «egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così vuol dire che è fatto per la roba» (La roba, da Novelle rusticane). La gioventù e il vigore, la mente e il corpo, il lavoro e lo status sociale, nulla importa di per sé: quello che nel profondo angoscia Mazzarò è l’inesorabile scorrere del tempo. La roba ce l’ha e potrà averne sempre più, ciò che non potrà mai (più) avere è il tempo dei suoi giovani operai perché il tempo, passando, si esaurisce anziché accumularsi. Questa dilaniante contraddizione tra materiale e immateriale è condensata nella celebre scena finale, quanto «ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini», Mazzarò «strillava: roba mia, vientene con me». In questi tempi bui di consumistica spersonalizzazione, appaiono evidenti la contemporaneità della novella e l’universalità verghiana. In parte antesignano di Pier Paolo Pasolini, Verga intuì con maggiore profondità l’anima rurale, drammatica e provinciale dell’Italia, e ne rappresentò senza alcuna edulcorazione la miseria e le contraddizioni.

A tratti ingenua nell’interpretazione di alcuni dettagli fondamentali (se, per esempio, nel testo Mazzarò si concede l’unico lusso di indossare un copricapo di seta, Guglielmo Ferro immagina il protagonista assillato da un martellante mal di testa), la restituzione teatrale coglie in parte e con qualche stortura la potenza e la radicalità della prospettiva originaria. Nella novella non c’è progresso o riscatto, ci sono sopportazione e affidamento al destino: la quotidianità è troppo aspra e implacabile per una natura umana che non può nulla per fare della consapevolezza un’arma contro la sofferenza. Nello spettacolo, questo realismo (pessimista senza se e senza ma) trova nella performance di Guarneri una recitazione a volte gigioneggiante, che non resiste alla tentazione della battuta ironica e che risulta contraddittoriamente troppo composta nelle invettive e nei lamenti, nonché troppo poetica nelle riflessioni stranianti («erano sorde un tempo le mie tasche»). Tuttavia, nonostante la faticosa ricerca del ritmo tragico, il Mazzarò di Guarneri implode opportunamente in un vibrante crescendo esistenziale e dà così forma a un personaggio imperfetto nella sua umanità, mentre sul palco i personaggi “comuni” sono ormai stati “puniti” al minimo accenno di felicità (la morte dell’amante per mano del pastore e del futuro sposo della giovane ragazza incinta).

La scena, d’altra parte, convince nel restituire la percezione di fatica di un contesto che non si lascia domare da mano umana. L’imponente ulivo, il grande cesto riempito di arance, il bell’effetto della pioggia in digitale: la costruzione di Salvo Manciagli lascia che della Sicilia emerga una personalità sfaccettata, simbolo di disperazione e oppressione, ma anche di terra lieve che si augura nei riti pagani di sepoltura. Dopotutto, la realtà è intrisa del tempo che se ne ha a disposizione ed è un’intuizione suggestiva quella di “addensare” la presenza della morte attorno a Mazzarò, a patto di sottrarla al dominio della (sua) narrazione verbale e di “tradurla” nella dimensione del mistero che più le appartiene.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Pirandello
Piazza Luigi Pirandello 35, Agrigento

La roba
di Giovanni Verga
regia Guglielmo Ferro
con Enrico Guarnieri
e con Giampaolo Romania, Nadia De Luca, Francesca Ferro, Rosario Marco Amato, Elisa Franco, Alessandra Falci, Gianni Fontanarosa, Giuseppe Parisi, Maria Chiara Pappalardo
drammaturgia Micaela Miano
costumi Sartoria Pipi Palermo
musiche Massimiliano Pace
scenografie Salvo Manciagli
produzione Progetto Teatrando