Dialoghi del cuscino

L’impasto di Eros e Thanatos è il motore della pièce che rese Strindberg famoso in tutto il mondo. Il recente adattamento di Leonardo Lidi non le toglie nulla, ma che cosa le aggiunge? La follia dei protagonisti è troppo palese sin dall’inizio: impossibile identificarsi, ma anche separarsi da essi. Fanno difetto l’intrusione dello spettatore nel dramma e il rivolgersi del dramma allo spettatore.

August Strindberg è noto ai più per essere stato uno dei maggiori drammaturghi scandinavi, colui che – insieme a Ibsen – ha messo a nudo le contraddizioni dell’animo umano, le convenzioni della società borghese, la dimensione claustrofobica dell’istituzione matrimoniale, orientando il teatro naturalistico verso ulteriori inediti sviluppi. A conferma della sua formidabile statura intellettuale, occorre però ricordare che egli fu anche un romanziere di vaglia e un saggista battagliero, in buona sostanza, uno scrittore eclettico e uno sperimentatore di linguaggi. È dalla constatazione di questa triplice e non comune vivacità creativa che vorremmo partire per commentare l’adattamento, intenso e ben costruito, de La Signorina Giulia di Leonardo Lidi, andato in scena al Vascello un paio di mesi or sono. Vale per quest’opera (datata 1888) la raccomandazione che Strindberg mise nero su bianco nelle prime pagine del suo romanzo, L’arringa di un pazzo, scritto in francese un anno prima, dove fornisce un dettagliato resoconto del sofferto matrimonio di lui, figlio di una serva, con l’aristocratica Siri Von Essen: «forse il lettore imparerà qualche briciola di fisiologia amorosa, un pizzico di psicologia patologica e anche un cenno di filosofia del delitto».

Adulterio e misoginia, l’angoscia di castrazione generata dall’emancipazione femminile, soprattutto se la donna pretende di appropriarsi di tutte le abitudini maschili, persino di quelle più triviali, il rancore originato dall’appartenenza a un rango sociale inferiore: già in quel “libro atroce”, nato dal «legittimo bisogno di lavare il mio cadavere prima che venga infilato nella bara» sono presenti tutti i temi che ricorreranno in forma drammatica – e non più narrativa – ne La Signorina Giulia.
In ossequio alla poetica strindberghiana, il regista torinese – già vincitore nel 2018 del Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia con un avvincente allestimento di Spettri – si rivela capace di mescolare «monologo, pantomima e balletto», gettando un ponte ideale tra questa intensa tragedia psicologica e quella antica, nella consapevolezza che «l’attuale monologo deriva dalla monodia e il balletto dal coro». Una programmatica incoerenza, al limite della psicosi, attraversa i due personaggi principali, Julie e Jean, interpretati con passione da Giuliana Vigogna e Christian La Rosa, intenti a rappresentare sotto agli occhi increduli dello spettatore gli eterni temi dell’amore impossibile tra una nobile e un servo e dell’incomunicabilità tra i sessi. Increduli giacché, per lo spettatore contemporaneo, il classismo puritano allora in voga non rappresenta più un ostacolo all’appagamento dei propri appetiti, né desta scandalo alcuno l’urgenza con cui il Desiderio cerca di sovvertire la Legge. Increduli, parimenti, perché – per un ironico scherzo del destino – oggi è il Desiderio stesso a dettare Legge, inaridendosi e spegnendosi come un fuoco fatuo.

Può essere utile ricostruire l’intreccio che si dispiega convulsamente sotto agli occhi del pubblico, avvitandosi in un climax dall’esito scontato. La contessina Julie decide di trascorrere la festa di San Giovanni con la servitù e si propone di sedurre il giovane Jean, che le dichiarerà di essere da sempre stato innamorato di lei. Sorpresi dalla servitù nel consumare il loro atto d’amore, la cuoca Kristin (impersonata da un’attendibilissima Ilaria Falini) – finalmente risvegliatasi da un isterico misterioso torpore – ricorda al suo fidanzato Jean le sue umili origini, mentre quest’ultimo progetta di fuggire lontano con Julie. Il ritorno del conte, Padre e Padrone, ristabilisce i confini delle convenzioni sociali, riassegnando a ognuno la posizione che gli conviene: per rispetto di (o sottomissione a) lui, Jean recede dal suo proposito e invita Julie – disperata per avere irrimediabilmente compromesso la sua reputazione – a togliersi di mezzo.

In sintonia con la psicologia della dissociazione dell’io di Théodule Ribot, Strindberg stravolge in maniera subdola e progressiva l’impianto classicista della tragedia borghese, facendola evaporare verso uno stile impressionista. Come ribadito nella prefazione a La Signorina Giulia, i personaggi sono oramai senza carattere: «più instabili, fratturati, impastati di vecchio e di nuovo […], conglomerati di stadi culturali passati ed attuali, stralci di libri e giornali, frammenti d’umanità, sbrendoli di abiti festivi fattisi cenci, proprio come è assemblata l’anima». Julie e Jean sono chiamati a mettere in scena la discontinuità dei loro “io”, ripiegandosi nelle loro interiorità senza fondo e senza sostanza, ingaggiando dei dialoghi che si trasformano via via in due monologhi, agitandosi da un lato all’altro del palcoscenico, dando in pasto al pubblico la loro traboccante Nervenleben. Le scelte attoriali di Giuliana Vigogna e Christian La Rosa, però, non raggiungono a pieno questo obiettivo: una cosa è rappresentare la perdita di sé, come risultato acquisito, altra cosa è adombrare il perdersi del sé, ovvero la rottura della linearità di passato e presente, il graduale annientamento di ogni relazione interumana, l’accidentale riconoscimento che le proprie vite sono determinate da fattori extrasoggettivi (il rapporto di Julie con la madre, l’estrazione sociale dei due, una cupa religiosità protestante), fuori dal loro controllo.

Assai apprezzabile l’allestimento scenografico, vero elemento di novità di questo adattamento che – grazie alla totale infedeltà all’impianto visivo immaginato da Strindberg – consente di raffigurare quel processo di epicizzazione del dramma tardo ottocentesco indicato da Péter Szondi (Teoria del dramma moderno 1880-1950) come l’avvio di un nuovo paradigma teatrale (Ibsen, Strindberg, Cechov, Maeterlinck). La scena di Nicolas Bovey si staglia verticale come un monolite liscio e scuro, su cui è intagliata in orizzontale una T bianca. È questo l’unico spazio calpestabile, abitato: una sezione verticale, a indicare l’abisso e il riparo, e una orizzontale e sopraelevata, alta poco più di un metro e mezzo, che impedisce agli interpreti di mantenere la posizione eretta. Le unità aristoteliche di spazio e di tempo sono saltate, la scena si fa metafisica e astratta, mentre tutto ciò che vi accade e vi si dice appare come una proiezione dell’io dell’Autore. A oltre un secolo di distanza, La Signorina Giulia di Strindberg continua, dunque, a interrogarci: si desidera solo ciò che è proibito? È davvero possibile, oltre che auspicabile, desiderare senza limite? Julie e Jean si sforzano di trovare, senza riuscirci, l’incastro geometrico di Legge e Desiderio, oscillando tra la repressione e il delirio di persecuzione.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini, 78 – Roma

La signorina Giulia
di August Strindberg
con Giuliana Vigogna, Christian La Rosa, Ilaria Falini
adattamento e regia Leonardo Lidi
aiuto regia Sanida Mujakovic
direttore di scena Emiliano Austeri
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono G.u.p. Alcaro
fonico Alessandro Beltrame
sarta Lucia Menegazzo
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi