Evergreen

Recensione Le cinque rose di Jennifer. Un evergreen della drammaturgia napoletana, dal compianto Annibale Ruccello, rivisitato dalla coppia padre/figlio Gleijeses.

Scena aperta, nessun sipario. Sul fondale la gigantografia di due palazzoni gemelli collegati da un fitto sistema di gradoni, dettaglio delle vele di Scampia. Identificazioni. Nello spazio allestito, l’interno di un monolocale/loculo che adesso costerebbe uno stipendio da impiegato fittarlo; allora, all’epoca in cui il testo fu scritto, si riusciva a pagare con le marchette. Facendo la vita. E di un ragazzo di vita la magnifica drammaturgia di Annibale Ruccello; della sua solitudine, dei suoi demoni, la sua Napoli avvistata nella sua lingua, nelle lenzuola sul letto (il mare, onde di mare in design), negli odori trasmessi dal palco, nella ferocia con cui tratta figli e figliastri (i personaggi anche non visibili),nella disperata ma bellissima, unica, umanità che vive tra l’ombra senza sole dei vichi e la luce delle marine, tra o’ cielo e a’ chiaveca.

Un ragazzo di vita, anzi, un femminiello, Jennifer, sottoproletaria, tumulata in casa in attesa di un innamorato che tarda a palesarsi, e non si paleserà mai. Ma continua ad aspettare Jennifer, e nel frattempo…prova ad essere felice (Beckett – Aspettando Godot). Felice del niente, delle canzonette trasmesse in radio, lo specchio a rifletterla in altre sembianze, il telefono. Il “nuovo” entrato in periferia, nelle budella di un basso impero ammorbato ancora da codici antichi, desueti; il nuovo che destabilizza e affascina, che si fa pretesto per parlare da soli, per dirsi e fingere di essere parte di un noi, di un gruppo, fingere di essere normale.

Una geografia extra-testuale la dialettica drammatica di Ruccello, espressa in fonesi, in gesti deprivati dell’enfasi plastica, in stilemi realistici dalle movenze naturali dei “deportati”, l’umanità dei sobborghi, dei bassi, della trasgressione. Onore al merito agli attori, padre e figlio, pezzi di storia del Teatro, entrambi, del teatro moderno e contemporaneo (postdramatique direbbe qualche saputo), nelle sfaccettature assunte, nella poliedricità del mestiere, nel non aderire strettamente alle categorie imposte dai critici del momento (i veri nuovi parrucconi più o meno giovani del teatro) o dalla cricca degli addetti ai lavori che pretende di comandare su scene e vite pur non essendo mai saliti su un palco e cogliendone in base agli umori del momento, “secondo il ritmo della propria vita sessuale” (R. Vecchioni), o per le convenienze di turno.

Onore al merito a due attori, al di là della esperienza e notorietà, che assumono la parte, la contaminano, la vivono e la rendono con estrema rigorosità, con immenso rispetto e dedizione, lasciando trasparire dai pori le intenzioni drammatiche, eludendosi a favore della dovuta grazia all’autore, gongolandosi ogni tanto, certo, il mestiere dell’attore è anche divertirsi, compiacersi d’un applauso a scena aperta, di risate fragorose, di venire richiamati dal pubblico a fine scena 4-5 volte. E sono fatti. Geppy, istrione delle scene (e fuori dalle scene), impressiona per quanto a suo agio riesca a calzare vesti non di repertorio, suo terreno più abituale negli ultimi decenni. Muovendosi sinuosamente, attoralmente parlando, nella lentezza che favorisce la visione percettiva, contemplativa, più tipica del contemporaneo che del classico/commerciale, quella partitura maggiormente fisica, a manifestare l’intenzione con la naturalezza del corpo scenico, del gesto antropico. Per sfondare nella vocalità, suo cavallo di battaglia, nell’utilizzo modulare timbrico e lessicale (drammatico) in cui è maestro. Reiterato a volte nel cliché, in tic, eccessivo ad occhio attento.

Delizioso Lorenzo, figlio, protagonista del teatro di ricerca, dal quale si concede personalissimi strappi, le orme dell’artista quando (l’artista in genere) non è ingranaggio di sistema, quando non è esecutore seriale come un pezzo di fabbrica. Prendendosi il lusso e l’onere di esporsi, di inciampare, di non rimediare consenso facile. Il prezzo dell’arte autentica. Delizioso in questa veste di “spalla”, nei panni di un personaggio non primario, funzionale allo sbuffo strutturale e alla lettura dell’opera. Niente sul palco è casuale e squisita la costruzione che amplia lo spettro percettivo in diversi ma intellegibili livelli. Approdano in platea anche odori (teatro sensoriale), caffè, cipolla, e approdano dimensioni umane crude, miserabili, disgraziate, commoventi, speculari, in bilico tra l’orizzontale e il verticale, a gratitudine di una scelta di non ammiccamento, di non arruffianare. Sorprendente.

Si sente il nodo in gola, del guardare in queste vite di cui ci se ne serve per sfogarsi delle proprie repressioni e che dicono in fondo di quanto siamo uguali, a questi personaggi che si trasformano, da uomo a donna, da povero a ricco o viceversa. E dicono di quanto noi, non abbiamo il coraggio di farlo. Di trasformarci. Di cambiare.
Lo spettacolo regge a ritmi sostenuti per un’ora e mezza abbondante. Ricreando agio, consenso, per soluzioni teatrali figlie della mente illuminata di Ruccello, per la mano registica duale “familiare” a distillare un connubio di tradizioni e approcci piacevolissimo ed efficiente, per una superba prova d’attore.
Applausi.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Sannazaro

Via Chiaia, 157, Napoli
venerdì 15 marzo 2024

Le cinque rose di Jennifer
di Annibale Ruccello
con Geppy Gleijeses e Lorenzo Gleijeses
regia Geppy Gleijeses
voce della radio Nunzia Schiano
voce di Sonia Gino Curcione
voce di Annunziata Mimmo Mignemi
voce del giornale radio Myriam Lattanzio
scene Paolo Calafiore
costumi Ludovica Pagano Leonetti
light designer Luigi Ascione
colonna sonora a cura di Matteo D’amico
aiuto regia Roberta Lucca
trucchi Cris Baron
parrucche Francesco Pogoretti
produzione Gitiesse Artisti Riuniti