La notte in cui tutti i dodi sono neri

Recensione Teoria della classe disagiata. Il Teatro Basilica ospita la traduzione scenica di un fortunato quanto spietato saggio di qualche anno fa, tra ispirazioni brechtiane e fondate commiserazioni generazionali.

La generazione degli attuali trenta e quarantenni, ovvero coloro che sono nati tra gli anni 80 e 90 e che vengono appellati solitamente come Generazione Y o anche Millenials, non ha avuto un destino facile: nella fase del proprio vigore psico-fisico ha subito, nel giro di una manciata di anni, una sequenza cadenzata di catastrofi che hanno riguardato e riguardano l’ecologia, la politica, l’economia. Sono i rappresentanti e la testimonianza vivente del fallimento incontrovertibile del modello tardo-capitalista, basato sulla promessa non mantenibile di un futuro migliore per tutti i membri della classe media e sulla credenza di una presunta progressività nel miglioramento delle condizioni di vita nel passaggio da generazione a generazione. Si tratta di quella che Raffaele Alberto Ventura, non molti anni fa – e tuttavia in una fase concettualmente e socialmente remota, perché antecedente la crisi pandemica e la crisi geopolitica in corso – ha definito “classe disagiata”, parafrasando e attualizzando la definizione di “classe agiata” che nell’Ottocento Veblen attribuiva a quella borghesia rampante che si affrettava ad accumulare e a decorarsi per spiccare sugli altri. La stessa borghesia che a un certo punto della storia avrebbe contribuito alla formazione di quella “classe media” che altro non era se non “classe di consumatori”, funzionale e vitale per la traduzione in capitale dell’ammasso di merci prodotte.

Teoria della classe disagiata del filosofo e saggista Ventura è stato un testo fortunato, che ha fatto molto riflettere e su cui molto si è detto e scritto, con tutte le contraddizioni e i limiti di un’analisi che tenta di sgonfiare i tanti passi falsi con l’arma della dialettica e con i riferimenti ampi che spaziano dalla letteratura moderna alla cultura pop contemporanea. Lo spettacolo in scena al Teatro Basilica, ispirato proprio al libro di Ventura, compie l’ambiziosa operazione di tradurre sul piano drammaturgico un saggio di teoria: si tratta di una trasfigurazione che accade raramente, tanto nel passaggio al cinema quanto a quello del teatro. Sul palco due attori, due interpreti molto fisici al punto che probabilmente è questo l’elemento più convincente dell’opera: Giacomo Lilliù e Matteo Principi esprimono innanzitutto sul livello performativo il disagio di un’intera generazione, caratterizzata non solo dalla precarizzazione del lavoro e perciò stesso della propria esistenza, ma anche dal disincanto nella scoperta che le ambizioni e le speranze coltivate e sostenute per anni sono destinate tutte a infrangersi, lasciandola in un mondo dove si è ormai troppo vecchi per costruire qualcosa.

Ogni epoca ha la sua buona dose di decadentismo nonché le sue proprie dinamiche nichiliste e autocommiserative, per questo il testo di Ventura cede il passo facilmente alla famigerata notte hegeliana, dove si precipita nel “tutto è uguale a tutto” e viene meno la possibilità di comprendere le specificità e le differenze. È talmente nera la notte di Ventura, che complici i riferimenti letterari a Chateaubriand e Flaubert viene il dubbio che il disagio di cui si parla sia non di natura storico-sociale ma di ordine antropologico se non persino “metafisico”. In altri termini, proprio le tesi sostenute dallo spettacolo sono la parte meno convincente, e se è vero che è compito della teoria sostenere delle tesi, mentre l’arte drammatica ha come scopo quello di spalancare voragini, è anche vero che l’autrice Sonia Antinori si rifà al teatro a tesi di brechtiana memoria. Se Brecht però intendeva alimentare il fuoco della coscienza di classe in vista di una rivoluzione come riscatto per le vittime della storia, qui la tesi serve a prendere coscienza, amaramente, della propria sconfitta e del proprio tramonto. In questo, l’opera è più vicina a Beckett che a Brecht, o meglio ancora alla lettura che Theodor W. Adorno faceva dell’opera del drammaturgo irlandese: proprio perché, come sosteneva Walter Benjamin, “solo per chi non ha più speranza è data la speranza”, allora l’immersione nella negatività assoluta e nell’assurdità dei tempi bui che stiamo vivendo è l’unica e disperata condizione di possibilità per un mutamento reale. Assistere alla disperazione, nonché ridere di essa, può far sorgere in noi il desiderio del cambiamento, che probabilmente potrebbe non condurre da nessuna parte, ma quanto meno ci porta alla presa di coscienza spietata della nostra condizione, una condizione che nel corso della quotidianità facciamo fatica ad ammettere per quanto sia evidente in ogni istante della nostra squallida vita: questa è l’unica opportunità di rivincita che ci viene offerta, essendo noi nient’altro che dei Dodo prossimi all’estinzione.

A risultare convincente nello spettacolo sono i materiali scenici, compresi quelli multimediali, nonché la veemenza performativa, innanzitutto fisica come dicevamo, che passa per la rottura radicale e insistita della quarta parete, andando persino al di là di Brecht: d’altronde, la dimensione metatestuale che permea l’intera pièce è motivata anche dal fatto che tanto l’autore del libro, quanto gli interpreti, nonché la regista, lo staff e tutto il pubblico che assiste allo spettacolo sono, su livelli e gradazioni differenti, rappresentanti di quella classe disagiata di cui si parla. Tutte vacche nere – pardon, “dodi” neri – di quella medesima notte hegeliana sulla cui oscurità nessun interprete avveduto avrebbe da ridire, ma che pur cinicamente efficace sul palco risulta inadeguata come strumento di comprensione del mondo; ma d’altronde, chi è l’ingenuo che crede ancora nella possibilità del teatro di comprendere o cambiare il mondo?

Lo spettacolo continua
Teatro Basilica
dal 13 al 15 ottobre, ore 21.00

Produzione Malte & Collettivo Ønar / Marche Teatro presentano
Teoria della classe disagiata
di Sonia Antinori
dal saggio di Raffaele Alberto Ventura
regia Giacomo Lilliù
con Giacomo Lilliù, Matteo Principi