Istantanea sul piccolo mondo di casa nostra

È un La Ruina maturo, riflessivo, consapevole quello del suo ultimo lavoro, Via del Popolo, che ha conquistato il pubblico, i giornali, i lettori e i teatri d’Italia attraverso un monologo semplice, essenziale, ma denso di figure, personaggi, vita.

La Ruina ci consegna un ritorno a un mondo perduto, fatto di piccole verità, semplici scene di particolari momenti di vita quotidiana e cittadina. Una vita smarrita nella frenesia di un presente liquido che ha cancellato un tempo che fu vivo, ora scomparso, su cui sono rimaste ferme le lancette di un orologio dipinto da un Riccardo De Leo che omaggia La persistenza della memoria di Dalì con una scenografia surrealista che emerge dal fondo della scena. Una passeggiata di ricordi in Via del Popolo a Castrovillari, dove il tempo si ferma sulla vicenda autobiografica dell’attore, qui attualmente residente, ma originario di un piccolo paese montano del Pollino.

Trasferitosi in città con la famiglia quando era bambino per cercare lavoro e fortuna attraverso l’attività del padre (il bar Rio, soprannominato ferocemente u bar di ciuti dai cittadini invidiosi di quei contadini che come tanti avevano lasciato la loro casa e la montagna per accedere ai servizi della città che a quei tempi era per loro come l’America), La Ruina restituisce l’anima perduta alla cittadina con un’abilità di racconto e un’interpretazione naturale, intima, con il coraggio di chi osa farsi vedere allo scoperto, come una pelle su cui è scritta attraverso la sua la nostra storia, che è anche quella di questo spettacolo, dove si fondono arte e vita dando origine a una bellezza non costruita – sua meravigliosa cifra stilistica – a cui siamo disabituati. Come un affresco di Guttuso, partendo dal vissuto personale e con marcato realismo, La Ruina dà forma a diversi personaggi presi a prestito direttamente dalla memoria, messa a dura prova da un testo bellissimo e ardimentoso, squisitamente letterario e sorprendentemente ironico che costruisce un mosaico di situazioni riemerse dal passato, ancora nitide, eloquenti, magiche. La parola di La Ruina le anima tutte e, con indosso giacca bianca e l’eleganza dallo stile classico e inconfondibile del cameriere, l’attore passa con un vassoio da bar e una splendida leggerezza disinvolta, tra botteghe, ristoranti, alimentari, cinema, magazzini, officine di una volta. Protagonista è il tempo, interrogato attraverso gli occhi del padre, immagine potente e fragile, piena di poesia, quella di una foglia attaccata a un ramo, metafora della vita che ci riguarda tutti.

Tempo relativo, tempo dell’anima che suggerisce alla memoria eventi che ci mancano perché li abbiamo amati tutti. Gli anni Sessanta, passati tra flipper e vassoi e canzoni al juke box, Dire Straits e Dik Dik, lenti ballati sui Procal Harum e paste rubate ai matrimoni. Tempo per esserne padroni: così Saverio bambino materialmente lo ferma sul cronometro d’oro regalatogli dallo zio Nicola, quando lascia raffreddare i caffè sul vassoio per andare a guardare le partite di calcio (ed erano cinghiate sulle ginocchia). Tempo che si ferma sul quaderno dove segna il nome di ogni attore di ogni film lasciato a metà e tempo per ogni bicchierino di sambuca che beve per ogni titolo il signor Pino del Ristorante Pino. Tempo che dalla quinta teatrale emerge molle, dilatato, pendente da una struttura invisibile, come a trasportarci in un’altra dimensione. Tempo soggettivo, anticonvenzionale, personale, di due minuti e cinquanta o di Trentaminuti , personaggio bellissimo, preso a prestito dalla fantasia degna di un Pirandello, potentemente simbolico, già mitico, perché si ferma a bere alla fontana o ad acquistare i fichi d’India, all’incrocio della strada. Tempo scandito dai tacchi delle signorine che passavano a piedi e facevano affacciare tutti i maschi ai balconi e alle finestre. Tempo che diventa veloce quando regala gioie, che diventa lento quando ce le toglie. Tempo che scompare, perché viaggia alla velocità teutonica, quando si ama. Tempo che scorre all’indietro su un mangianastri nella cabina per il proiezionista del vecchio cinema Ariston. Tempo delle manifestazioni studentesche contro la sede dell’MSI, quando personaggi come Capilupo infiammavano le strade di rivolte alla ricerca di diritti. Tempo dei ragazzi che si baciavano per strada, tra gli occhi curiosi dei vicini, delle performance dal vivo dei Living Theater quando era possibile guardare il mondo e che il mondo guardasse noi. Tempo che oggi ci fa sentire come se mancasse tutto e una volta non mancava niente se solo avevamo Carosello. Tempo surreale e materiale, divorato, disintegrato, che ci ricorda che siamo tutti destinati a passare tranne lui e che solo noi possiamo deciderne la velocità delle lancette, mettendoci d’accordo con il vento, facendo sì che l’anima lo attraversi sempre come un tempo bellissimo e infinito. Un tempo leggero.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Vittoria
Via Roma, Castrovillari
27 dicembre 2022 ore 21

Via del Popolo
di e con Saverio La Ruina
disegno luci Dario De Luca
collaborazione alla regia Cecilia Foti
audio e luci Mario Giordano
allestimento Giovanni Spina
dipinto Riccardo De Leo
amministrazione Tiziana Covello
produzione Scena Verticale
organizzazione generale Settimio Pisano