Impantanarsi nell’ossequio del passato

Recensione Zio Vanja. Resiste tenace e spesso trionfante ai botteghini (a volte anche nei finanziamenti), un teatro tradizionale dove le rappresentazioni rispettano le regole accademiche e l’intenzione creativa aderisce a un immaginario in cui la realtà viene trasfigurata in termini mimetici e letterari, a volte anche lirici, ma senza autentico realismo. È questo, purtroppo, il caso dello Zio Vanja adattato e diretto da Roberto Valerio.

Autocompiacimento, sogni infranti e fatalismo sono solo alcuni degli umori che accompagnano il naufragio dell’essere umano e che compongono Zio Vanja, una tragedia in cui gli stati d’animo – anche quando radicali – vengono descritti in un glaciale immobilismo e in una sciagurata idealizzazione del sé e della realtà. La mediocrità del professor Aleksandr, un accademico cialtrone, e di Astrov, il medico ubriaco, così come l’inettitudine di Helena e di Sonja, donne che vivono all’ombra dei maschi di turno, disvela come l’umanità sia “abitata” da esseri diversamente incapaci di affermare alcunché di positivo nella propria esistenza e la cui sventurata consapevolezza accentua in maniera paradossale il macerare tra rimpianti e rimorsi.

Le loro vite sprecate sono trasfigurate dall’arte nel sentimento di decadenza che la sensibilità di Čechov colse come caratteristica dell’epoca di passaggio tra XIX e XX secolo, ma che lo Zio Vanja di Roberto Valerio sembra “ignorare”. Il suo “gioco drammaturgico” avrebbe avuto bisogno di un più raffinato movimento di sfumature esistenziali per costruire un’ecologia scenica risultata purtroppo grossolana. Non basta, infatti, aver parzialmente svuotato la scena quando i pochi elementi presenti sono così invadenti e macchinosi nei cambi scena (dettati dal salire e scendere di un velo trasparente posizionato a metà del palco) e se l’enfatizzazione dell’apparato narrativo inficia la dimensione esistenziale dell’allestimento privandolo di segni e simboli che avrebbero potuto strappare la pièce dalla sensazione di uno sceneggiato storico le cui virtù sono puramente letterarie e insignificanti nel raccontare l’esperienza concreta. I travagli interiori dei character ancorati all’esposizione verbale, le soluzioni didascaliche (es., le continue bevute, i nomi russi, i mobili), la declamazione enfatica della recitazione sono gli elementi scelti da Valerio per il disvelamento dell’impossibilità dell’essere umano di essere felice, ma che, risultando privi di “seduzione” intellettuale o emotiva, conducono Zio Vanja allo scacco di un’espressione estetica disorganica non nel senso della parcellizzazione delle esistenze inscenate.

Gli individui in Čechov sono singoli atomizzati nel campo gravitazionale di un’opera da molti considerata priva azione concreta e scevra di confronto ideale. Il medico e la sua giovane moglie, Zio Vanja, la madre, la sorella e la figlia/nipote, il dottore filosofo e il “miserabile” proprietario terriero, forse ognuno di loro possiede una propria verità, ma il tentativo di condividerla si infrange in un mortificante impatto con il Mondo. Di fronte a questo arsenale di possibilità, la direzione corale di Valerio isola gli interpreti in condizioni esistenziali che rispettano solo pedissequamente le atmosfere psicologiche immaginate da Čechov e che vengono costruite attraverso dialoghi che spesso sono semplicemente scontri di monologhi o relazioni che esprimono verbalmente l’impossibilità di sanare autenticamente i contrasti interpersonali.

La stessa eventuale abilità degli attori e delle attrici rimane velata e solo intuibile nell’invadenza di una intenzione registica che sceglie (legittimamente) di toccare Čechov, ma senza cogliere il potenziale di temi messo a disposizione dal drammaturgo russo per decostruire gli stereotipi o le dissonanza del presente, così finendo per raccontare semplicemente una storia e un mondo che non esistono più.

Mancando di tensione, lo spettacolo perde in comunicatività, mentre la scelta di un estremo tradizionalismo impedisce l’emergere di figure chiaroscurali. Valerio, in questo modo, riduce questo classico all’eco di un omaggio all’originale non in grado di toccare l’oggi e porta il suo Zio Vanja a “sminuire” la propria possibilità di provocare una qualche comprensione del nostro tempo e di enucleare una qualche forma di riflessione sull’attualità del conflitto generazionale, del disastro ecologico, del fallimento del sistema economico, della vanagloria delle ambizioni personali o della frustrazione dei rapporti sentimentali.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro del Giglio
Piazza del Giglio 13/15, Lucca

Zio Vanja
di Anton Čechov
adattamento e regia Roberto Valerio
con Pietro Bontempo, Mimosa Campironi, Giuseppe Cederna, Vanessa Gravina, Massimo Grigò, Alberto Mancioppi, Elisabetta Piccolomini
costumi Lucia Mariani
luci Emiliano Pona
suono Alessandro Saviozzi
allestimento Associazione Teatrale Pistoiese
produzione Associazione Teatrale Pistoiese Centro di Produzione Teatrale
con il sostegno di Ministero della Cultura, Regione Toscana