Il teatro, chi l’ha visto?

Amleto è morto, ma non è scomparso nella celebre scena dell’omonima tragedia. A “suicidarlo” è stato il non convincente adattamento firmato da Giorgio Barberio Corsetti, in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 9 dicembre.

Siamo in Danimarca, il re è morto da poco e il fratello che lo ha ucciso ne ha poi sposato la vedova. Il delitto è indimostrabile, ma un fantasma ha rivelato al principe danese, suo figlio, quanto accaduto.

L’intero dramma è costruito come una spasmodica e sofferta ricerca della verità, ma Amleto ha un ulteriore problema, quello di passare dalla conoscenza dei fatti all’azione. In un dilaniante gioco di smascheramento, in cui lui è l’unico a sapere qualcosa che tutti gli altri ignorano pur senza averne l’assoluta certezza (perché un fantasma non è il migliore dei testimoni possibili), Amleto sarà disposto a strumentalizzare ogni situazione, ogni affetto, ogni norma. Costi quel che costi, il principe non risparmierà neanche sé stesso, reciterà il ruolo del pazzo, di colui che indossa una maschera per non dissimulare ipocritamente il proprio pensiero, che non finge rispetto quando in realtà prova disprezzo.

Lui che sa è folle, ed è folle proprio perché la sua “sapienza” non è divina, ma umana, fallace. La sua relazione con la società è quella del cercatore del vero in un mondo profondamente falso ed è per questo che Amleto si autocondanna e “stritola” tra l’apparire “contemplativo” e l’essere irresoluto. Solo con la scomparsa dell’amata, della madre, di sé e dell’alter ego Laerte, solo a questo punto, con la propria morte, la sua umanità e la sua “missione” potranno dirsi compiute e concluse. E solo allora la sua storia potrà essere conosciuta attraverso le parole dell’unico amico Orazio («vivi e respira ancora il tuo dolore, in questo duro mondo, per narrare la mia storia»), perché solo così potrà provare “accettazione” del mondo.

Dal rapporto edipico alle relazioni di potere, dalla dialettica tra intimità e responsabilità pubblica al confondersi di vendetta e giustizia, le metafore incarnate da quella che è probabilmente la più celebre e conosciuta opera di Shakespeare sono di inaudita potenza. Le possibili riletture sono innumerevoli, la liceità delle (re)interpretazioni immensa ed è per questo che ci si accosta con massima curiosità alla messa in scena di Giorgio Barberio Corsetti, regista noto per la capacità di sperimentare a livello di rappresentazione esaltando la multimedialità e incrociando metateatralità e realtà.

L’incipit rappresenta una delle innovazioni che Corsetti opera in questo adattamento ed è sorprendentemente “plateale”: Amleto apre la scena e declama il celebre monologo “minacciando” di versare la bottiglia d’acqua che tiene in mano sulla prolunga elettrica che si trova ai propri piedi. Ovviamente non accade nulla, se non la perplessità nell’aver assistito all’identificazione dei turbamenti di Amleto con il desiderio di farla finita semplicemente suicidandosi.

Eccezion fatta per questa introduzione, la situazione e il successivo svolgimento della tragedia rispecchiano pedissequamente le note vicende danesi, se non fosse che gli spettatori si trovano di fronte a un palcoscenico dove attrici e attori si muovono e recitano all’interno di scene moderne (seconda innovazione). La festa “chic” di Re Claudio, gli abiti trendy tra cravatte, giacche di pelle, doppiopetti e tailleur, Ofelia fitness addicted, l’apparente omosessualità tra Rosencrantz e Guildenstern, gli interni a neon e metallo a vista sono immagini “d’attualità” che si sovrappongono al testo di Garboli, che allo stesso modo alterna arcaicità e modernità. Il risultato non è un pastiche iper o meta-teatralizzato, ma un pasticcio visivo che la recitazione enfatica e solenne purtroppo “sostiene” dando a questo Amleto i contorni di un’operazione cerebrale e posticcia.

I temi ancestrali e profondissimi rimangono nel testo, mentre l’ipotetica indagine delle dinamiche che strutturano la società moderna resta confinata nelle note di regia (“Elsinore è la nostra città interiore, noi siamo i suoi personaggi, il teatro è il luogo in cui le nostre storie segrete possono essere raccontate”).

La tensione drammatica sterilizzata dalla monotonia di un forzato disordine recitativo, lo straniamento brechtiano di Amleto che narra in prima persona al pubblico (terza e ultima innovazione), l’incredibile banalità con cui viene risolta l’apparizione del fantasma del padre e diverse soluzioni prive di alcuna giustificazione drammaturgica (la manciata di note alla chitarra elettrica suonate da Ofelia, la salita/discesa attraverso la quarta parete, le scritte a led luminose) smontano la scena da ogni tonalità grottesca e tragica per renderla neutra e semplicemente da “ascoltare”.

A salvarsi da questo naufragio nell’insignificanza drammaturgico-performativa sono poche note positive, come l’ambientazione distorta e amplificata dall’utilizzo delle luci e la struttura scenografia modulare e funzionale in cui i personaggi vengono portati in scena, portati perché guidati dai ripetitivi e prevedibili meccanismi di regia che alternano sempre gli stessi schemi.

Al di là dell’autocelebrazione del proprio lavoro («Amleto accoglie il pubblico in teatro, il suo e nostro teatro intimo, profondo, nascosto»), il problema non sono i singoli elementi, come la recitazione in sé, ma il modo in cui la direzione li organizza. Nel caso delle interpretazioni, Corsetti le mortifica in pose e tonalità forzate prive di significative corrispondenze sceniche – come dimostra la morte di Polonio, un momento che tanto il Bardo quanto Corsetti immaginavano altamente drammatico ma che viene accolto dal pubblico con una imbarazzante (per Corsetti) reazione di risate.

È questa, insieme all’incomprensibile dichiarazione rilasciata in una intervista (secondo la quale gli «spettatori dovranno essere partecipi», ma a cosa, come?), la dimostrazione plastica più evidente della confusione (de)generata nella percezione del pubblico da scelte registiche poco o per nulla “sensate”.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Argentina

Largo di Torre Argentina, 52, 00186 Roma
17 novembre – 9 dicembre 2021

Amleto
di William Shakespeare
traduzione di Cesare Garboli
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con (in ordine di apparizione) Fausto Cabra, Francesco Sferrazza Papa, Giovanni Prosperi, Dario Caccuri, Michelangelo Dalisi, Sara Putignano, Francesco Bolo Rossini, Mimosa Campironi, Diego Giangrasso, Adriano Exacoustos, Francesca Florio, Iacopo Nestori
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Camilla Piccioni
musiche e vocal coaching Massimo Sigillò Massara
movimenti Marco Angelilli
assistente alla regia Tommaso Capodanno
assistente scenografa Alessandra Solimene
stagista di drammaturgia Emilia Agnesa
foto di scena Claudia Pajewski
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale