Quel che resta del simbolo

Recensione Amleto + Die Fortinbrasmaschine. In una delle sue prove più sorprendenti, Roberto Latini si confronta con l’Amleto shakespeariano, filtrato e scheggiato dalla rilettura di Heiner Müller e, sottotraccia, anche da quella di Carmelo Bene.

«Amleto + Die Fortinbrasmaschine è la riscrittura di una riscrittura. Alla fine degli anni ‘70 Heiner Müller componeva un testo che era liberamente ispirato all’Amleto di Shakespeare. Oggi, tentiamo una scrittura scenica liberamente ispirata a Die Hamletmaschine di Heiner Müller». Così esordiscono le note di regia del nuovo spettacolo di Roberto Latini, andato in scena nei giorni scorsi nell’attivissimo Teatro Basilica di Roma. Se lo scorso anno con Venere e Adone Latini era andato a scomodare Ovidio in uno spettacolo super-dominato dalle maschere e dallo strazio di un amore perduto, e ancor prima con In Exitu, per il tramite di Giovanni Testori, si era riallacciato alla complessa sensibilità biblica calata però nel corpo e nell’agonia di un moderno tossico, Amleto + Die Fortinbrasmaschine porta a termine un processo di raffinatissimo confronto con i classici e, al contempo, di post-moderno accumulo di citazioni.

«Gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini», sentenziò una volta Borges. Che dire allora delle citazioni e delle meta-citazioni? Pur essendo uno degli spettacoli più originali del teatro contemporaneo italiano, Amleto + Die Fortinbrasmaschine è anche uno dei più derivativi. Se il testo di Müller viene da Latini innalzato al rango di «classico del nostro tempo» e l’originale Amleto di Shakespeare era una tragedia giocata tutta sugli orfani e sulla morte dei padri, anche Die Hamletmaschine, ormai, da figlio è diventato padre, commenta Latini, il che «ha a che fare con la nostra generazione, da Pasolini in poi, con la distanza che misura condizione e divenire, con il vuoto e la sua stessa sensazione. Siamo Fortebraccio, figlio, straniero, estraneo e sopravvissuto e arrivando in scena quando il resto è silenzio, domandiamo: “Where is this sight?”».

Il riferirsi di Latini a Müller è esplicito, adombrato fin dal titolo; un altro riferimento però si insegue lungo tutto lo spettacolo di Latini e prende voce nei minuti finali dello spettacolo: quello a Carmelo Bene, di cui proprio quest’anno ricorre il ventennale della morte. C.B. si era accostato più volte, lungo tutto il suo percorso teatrale, cinematografico e artistico in genere, all’archetipico Amleto di Shakespeare: ma a Shakespeare C.B. si era avvicinato prendendo ora come specchio rifrangente le Moralità Leggendarie di Laforgue, ora l’«io non voglio più essere io» di Guido Gozzano, senza mai dimenticare, per inciso, il passaggio dell’Ulisse di Joyce in cui si dibatte quasi psicoanaliticamente sul dramma shakespeariano.

Alla lezione di Carmelo Bene, anche per quanto riguarda la celebre e ineffabile questione della phoné, e al suo densissimo confronto col palcoscenico dei classici si rifà prepotentemente Latini, soprattutto quando, giocando con le assonanze dell’inglese Hamlet/homeless/homelette, sulle labbra di Latini si profila quell’Homelette for Hamlet con cui C.B. aveva voluto intitolare il suo penultimo confronto teatrale – e televisivo – con l’eroe shakespeariano per eccellenza.

Per il resto, che dire dello spettacolo? Tutto ciò che non va tra le note a piè di pagina del testo è difficile da comunicare a chi c’era, figuriamoci a chi non c’era. Sin dalla prima battuta – «Io non sono Amleto» – Roberto Latini sembra voler risolutamente estremizzare tutto ciò che giaceva, in potenza, già nell’originale shakespeariano e che l’Hamletmaschine di Müller aveva parzialmente portato alla luce. La pulsione contro il principium individuationis che attraversava tutto il dramma di Shakespeare vien portata, qui, fin dentro il corpo dell’attore, che può contenere tanto Amleto quanto Ofelia in un costante scambio di ruoli. Il monologo più celebre della storia del teatro, «To be or not to be/that is the question», viene qui ridotto a formidabile pantomima, recitato una volta per dritto, una volta a rovescio, «…dilemma il è questo essere non o essere».
Al termine di questa straordinaria prova d’attore e di drammaturgia, di riscrittura e anzi meta-riscrittura, viene da pensare che Amleto sia stato dissodato fino in fondo, che non sia possibile portare più avanti di così il discorso su Shakespeare, su questo Shakespeare. Un qualche Amleto di più ci farà forse cambiare idea portando nuove varianti allo spettacolo e scoprendone nuovi dossi interpretativi. Intanto, in un teatro italiano che pericolosamente oscilla tra le rimesse in scena dei più abusati classici e la rarità, per non dire la sostanziale assenza, di drammaturgie contemporanee degne di questo nome, Roberto Latini indica ancora una volta una terza via, tra originalità e reenactment, tra tradizione e contemporaneità. Una terza via che è ben più difficile, paradossalmente, delle altre due, ma che risuona decisamente sublime, quando cade nelle sue mani.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Basilica
piazza di Porta S. Giovanni 10, Roma
fino al 30 ottobre
ore 21

Amleto + Die Fortinbrasmaschine
di e con Roberto Latini
drammaturgia di Roberto Latini, Barbara Weigel
regia di Roberto Latini
musiche e suoni di Gianluca Misiti
luci e tecnica di Max Mugnai
produzione Fortebraccio Teatro in collaborazione con L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, ATER Circuito Regionale Multidisciplinare – Teatro Comunale Laura Betti, Fondazione Orizzonti d’Arte, con il contributo di MiBACT e Regione Emilia-Romagna