Si può finire di nuovo?

Recensione Ceneri alle ceneri. Al Teatro Trastevere è andata in scena un’interessante versione di Ceneri alle ceneri, emblematico esempio di “teatro del disagio” messo a punto da Harold Pinter, dopo una lunga serie di “commedie della minaccia”. Coronano la rappresentazione due apprezzabili prove d’attore. Scenografia scarna, come da didascalia; progettazione illuminotecnica da ricalcolare per movimentare posture e parole.

Rebecca e Davlin occupano la scena dall’inizio alla fine della pièce, conversando sull’oscuro passato di lei. Sono una donna e un uomo, legati non tanto – e non solo – da un contratto d’amore, di cui si fa fatica a rintracciare il senso, ma dalla confessione di Rebecca che gli riferisce eventi lontani, forse nemmeno vissuti per davvero, eppure ricordati. Un uomo che la “adorava” e la dominava, una sirena della polizia che si affievolisce, una penna “innocente” caduta a terra da un tavolino, una casa nel Dorset d’estate, un tè con la sorella Kim (tradita dal marito) e le nipotine, l’uomo che strappa le bambine dalle mani di madri urlanti…

Il tempo che passa certo non esiste più, ma non sparisce; anzi, tende a riaffiorare dalle nebbie di una rimozione operata per sopravvivere, per non sentire il dolore o la vergogna che altrimenti ci sopraffarebbero. In questo dramma, uno degli ultimi, rappresentato per la prima volta nel 1996, l’ebreo Pinter – solitamente poco incline a confrontarsi con la sua origine – esce allo scoperto e attira dentro questo buco nero della Storia. Deportazioni e Olocausto sono presumibilmente i convitati di pietra di questa pièce dalle tinte fosche, in cui i grandi eventi dell’umanità si riverberano sulle piccole e nude vite dei personaggi. Rebecca, interpretata da una solida e temeraria Gabriela Corini, lo sa bene. È lei l’indiscussa protagonista di Ceneri alle ceneri: è lei ad andare a fuoco sulla scena, spargendo le ceneri della sua memoria nella sala di un piccolo teatro romano, il Trastevere, coraggioso promotore di un cartellone distante dalle più consuete logiche di mercato, stavolta chiamato a fare da cornice a un rogo simbolico cui il pubblico assiste stordito. A farle da spalla Davlin, interpretato da un validissimo Roberto Zorzut, con voce priva di tentennamenti e gesti misurati, a tratti accademico, ora nelle vesti di comprensivo psicoanalista della malcapitata ora in quelle minacciose dell’Inquisitore.

Le atmosfere sono quelle kafkiane del Processo, romanzo assai caro a Pinter, in cui l’imputato sa di essere colpevole senza conoscere la sua colpa mentre il giudice è un fantasma impersonale e persecutorio. I dialoghi tra Rebecca e Davlin – ma sarebbe meglio dire: l’incastro dei loro monologhi – restituiscono in maniera calzante il paradigma indiziario del dramma, dove non vengono presentati fatti né prove. Non si può dire lo stesso delle luci, che ovattano la narrazione in modo elettrico, anziché lasciarla evaporare nella penombra.

Il pintaresque scava gli occhi e le orecchie del pubblico, lasciandogli apparentemente il controllo, ma in verità decostruisce le sue certezze con progressività e fermezza, sfiorando l’apocalisse, sempre da lontano. Tornando a Rebecca e alla prova di Gabriela Corini, già nota al pubblico per le esperienze toscane di teatro danza (La perfezione di uno spirito sottile, con regia di Carlo Carfagni) e più di recente per l’ammirevole lettura de Il Canto d’Amore e Morte dell’alfiere Cristoph Rilke. Attrice dal corpo minuto e teso, assai convincente sul piano non verbale e paraverbale, per esempio quando somatizza sulla poltrona le paralisi e le scompostezze della mente di Rebecca, di Ceneri alle ceneri è anche la regista. L’impostazione è chiara e riconoscibile, l’osservanza delle pause – così frequenti nel testo pinteriano – non sempre, in uno spazio in cui è la parola ad agganciarsi al silenzio e non il contrario. Gli stacchi e i vuoti, di cui abbiamo avvertito la mancanza, sono invece elemento integrante e costruttivo della diegesi.

Chi parla a chi? Davlin conosce davvero la sua Rebecca? Stiamo assistendo a una scenata di gelosia o alla psicotica scissione dell’io di entrambi, assai più difficile da decifrare? Lei sta parlando di un suo amante passato, o di lui stesso, a cui prima si è immolata come vittima e che invece ora tratta con l’indifferenza di una carnefice? L’amante era una guida turistica o il padrone di una fabbrica? Perché lui, che tanto l’adorava, pretendeva che lei gli baciasse il pugno o le metteva le mani alla gola fino quasi a toglierle il respiro? Lei odia il suo compagno attuale, per averla intrappolata in una casa borghese con giardino? O gli è riconoscente per averla salvata dalla catastrofe? Chi sono le madri a cui strappano i bambini alla stazione? E di chi è la neonata nascosta nel fagotto, così insistentemente menzionata alla fine della pièce? È la sua o è lei stessa?

Una caterva di interrogativi si affastella nel tentativo di sbrogliare questa matassa di visioni, senza potervi riuscire. Un turbine di parole si associano quasi in libertà, in un gioco impossibile di domande inevase (quelle di Davlin) e di risposte non richieste (quelle di Rebecca), così da delineare un bizzarro impiego di écriture automatique di cui Pinter pare servirsi non per scadere nel surrealismo, ma per dare vita a un’iperrealtà, troppo densa, piena di sincronicità e di rimandi interni. Si può finire molte volte, sostiene Rebecca nelle battute finali, anche se – come opportunamente osserva Davlin – la parola “fine” e l’avverbio “di nuovo” non potrebbero stare insieme. A teatro, invece sì, dato che uno spettacolo viene rappresentato più e più volte, ovvero iniziato proprio per essere finito di nuovo.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Trastevere
Via Jacopa de’ Settesoli 3, Roma

Ceneri alle ceneri
di Harold Pinter, traduzione di Alessandra Serra
con Gabriela Corini e Roberto Zorzut
regia, scene e costumi Gabriella Corini
disegno luci e aiuto regia Roberto Zorzut
produzione SEVEN CULT