Troppa ‘scena’, poco teatro

Recensione Come tu mi vuoi. De Fusco presenta una versione quantomeno controversa di Come tu mi vuoi, testo del 1926 che, pur non essendo tra i più rappresentati del genio agrigentino, incarna in maniera esemplare una tematica fondamentale per la drammaturgia contemporanea, il chiasma di perdita e ricomposizione dell’identità personale.

Servono volontà e intenzione titanica per confrontarsi con un gigante come Pirandello, ma non bastano. Nella sua produzione, la dialettica tra essere ed essere percepito si incunea in un gioco perverso che non trova alcun riparo nella memoria individuale o in quella collettiva e la drammaturgia di Come tu mi vuoi, pur realizzata all’interno della fase del cosiddetto teatro nel teatro, continua a sviluppare la questione del relativismo gnoseologico, dello smascheramento delle convenzioni e del cortocircuito tra ruolo sociale e dimensione privata. Protagonista della pièce è una donna definita inizialmente Ignota. La sua, però, non è semplicemente una sorta di incertezza sulla propria identità, ma, più radicalmente, è lo sconvolgimento determinato dal dover necessariamente far passare il proprio essere “privato” dall’essere pubblico. La lacerazione tra persona e personaggio è profonda e non si limita a una questione di autenticità autopercepita, ma al fatto che si diventa per come si è voluti. Dunque, parafrasando uno dei capolavori del Girgentano, in Come tu mi vuoi non si è mai solo uno, ma sempre e contemporaneamente anche nessuno e centomila.

La de-realizzazione del processo di individuazione si sviluppa in Come tu mi vuoi attraverso una trama pirandellianamente contorta sulla contesa identitaria tra una donna di cui non si conosce il nome e Lucia, la giovane moglie di Bruno Pieri, scomparsa in seguito all’occupazione tedesca del Veneto durante la Prima Guerra Mondiale. Di quest’ultima chissà se rapita e uccisa, forse scappata per la vergogna e la violenza subita, non si sa nulla e nulla di certo si saprà nel corso della rappresentazione. Dell’Ignota, invece, il primo atto disegna un profilo psicologico abbastanza limpido nella sua ambiguità: la donna, Elma, lavora come ballerina nei locali notturni di Berlino e vive in casa dello scrittore Cari Salter, suo amante e con la cui figlia sembra intrattenere un rapporto erotico.

Probabilmente annoiata da questa esistenza “estetica” e dopo aver confessato di sentirsi come «un corpo senza nome in attesa di qualcuno che se lo prenda», Elma tenta il salto “etico” approfittando del fatto che un italiano sembrerebbe averla riconosciuta come Lucia.  La scelta di essere moglie non è però una possibile via di fuga: nella vita nulla è semplice o lineare e, nonostante la famiglia del marito sembri disposta a riconoscerla come la moglie scomparsa, Elma scopre che dietro la sua identificazione sta l’«intrigo sporco d’interessi» del marito che vorrebbe riottenere la casa che con la sua (di Lucia) morte era passata alla sorella. A questo punto sarà Elma a delirare e a voler insinuare il dubbio sulla propria (ipotetica) identità. Ad aiutarla in questo precipizio sopra la follia sarà paradossalmente l’arrivo in Italia dell’ex amante tedesco. Salter, infatti, ha portato con sé uno psichiatra e una donna inferma nel corpo e nella mente capace pronunciare solamente due sillabe che sembrerebbero quelle del nome della zia di Lucia (Lena). Fino a quel momento, in assenza di prove a favore o contro, Elma aveva potuto godere della “ragionevole” fede d’essere la moglie di Bruno, con l’arrivo della povera demente «qualunque certezza può vacillare» perché «appena il minimo dubbio sorge […] non ci fa credere più come prima».

La stessa Elma ormai alimen­ta i dubbi sulla propria identità, conscia di come l’individuazione di Lucia in una delle due donne non passi dal distinguere o dal cogliere le eventuali somiglianze/differenze tra l’una e l’altra. Risolvere l’enigma che si cela dietro la domanda “chi sono io?” non trova alcuna consolazione nell’evidenza fisica: quello che resta, dopo esser stata «un corpo senza nome in attesa di qualcuno che se lo prenda», è la volontà di «tornare a danzare», facendo una chiara allusione alla “vecchia” vita berlinese che, pur con tutti i suoi limiti, almeno non era ipocrita.

La maschera sociale non basta più a compensare la doppiezza tra personaggio e persona e Come tu mi vuoi porta il dramma a rendersi indistinguibile dalla vita. Quello che al singolo rimane è macerare nel racconto di sé, a soffrire nella coscienza di dover essere senza mai aver avuto la forza e la volontà di essere qualcosa. I personaggi di questa commedia sono tragicamente esasperati dalla consapevolezza che «guai se non ci fosse la ragione a far da camicia di forza» perché «debbono aver sempre ragione i fatti».

Con a disposizione una drammaturgia abbastanza riconoscibile e solida, De Fusco restituisce l’oscurità psicologica dei protagonisti in un’ambientazione scenicamente dominata dal colore nero (fondali, costumi) e prova a complicarne la percezione utilizzando un telo trasparente lungo tutto il palco dove proiettare e sdoppiare i movimenti e i patimenti di Lucia Lavia (Elma/Lucia). Completano l’arredo, una serie di quinte a specchio in cui si “replicano” i characters. A determinare l’estetica di Come tu mi vuoi non sono però queste impostazioni tecniche, ma la scelta della postura attoriale: a seconda dei personaggi, De Fusco sceglie la frenesia, la forzatura o la caricatura grottesca per rimandare al senso performativo dello spettacolo, ma l’impostazione è talmente invasiva e monocorde da deflagrare in uno stucchevole manierismo che travolge in primis la protagonista. Lucia Lavia è una sorta di indemoniata alle prese con un tentativo di autoesorcismo che ingaggia un corpo a corpo con qualsiasi cosa, di materiale o immateriale, le capiti intorno (interagisce con il disegno luci, litiga con i fantasmi della propria psiche, simula amplessi), ma la sua prova è troppo enfatizzata, statica nelle sfumature caratteriali, perennemente distorta nella vocalità e alterata sul dinamismo scenico (anche dal contrasto con “l’immobilismo” degli altri attori), per non lasciare perplessi sull’ipotesi del suo probabile talento.

Canonica nel concepimento e maldestra nella performazione, Come tu mi vuoi di De Fusco si riduce a una poco significativa attualizzazione di atmosfere e tematiche che, mutatis mutandis, sono purtroppo ancora presenti nella nostra società votata al conformismo e all’inautenticità à la carte.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Pirandello
Piazza Luigi Pirandello 35, Agrigento

Come tu mi vuoi
di Luigi Pirandello
regia Luca De Fusco
adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
con Lucia Lavia (L’ignota), Francesco Biscione (Salter), Alessandra Pacifico (Mop/demente), Paride Cicirello (Boffi),
Nicola Costa (un giovane/dottore), Alessandro Balletta (un giovane/ Masperi), Alessandra Costanzo (zia Lena),
Bruno Torrisi (Zio Salesio), Pierluigi Corallo (Bruno Pieri), Isabella Giacobbe (Ines)
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
movimenti coreografici Noa e Rina Wertheim-Vertigo Dance Company
proiezioni Alessandro Papa
produzione Teatro Stabile di Catania, Teatro della Toscana Teatro Nazionale, Tradizione e Turismo srl – Centro di Produzione Teatrale – Teatro Sannazaro