Excusatio non petita

Nato dalla lettura del notevole libro Fuga dall’Egitto. Inchiesta sulla diaspora del dopo-golpe della giornalista e docente universitaria Azzurra Meringolo Scaroglio, il quasi omonimo Fuga dall’Egitto di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio porta al Festival delle Colline Torinesi 26 un tentativo fallito di “teatro documentario” che scade ben presto nell’autoassoluzione e nell’autocompiacimento tipici degli attivisti politici della domenica.

«Il progetto trae ispirazione dal libro di Azzurra Meringolo Scarfoglio [Fuga dall’Egitto. Inchiesta sulla diaspora del dopo-golpe, NdR], e getta luce proprio sul fenomeno della diaspora egiziana post-2013, ovvero su quei giornalisti, sindacalisti, artisti, medici, poeti, politici e attivisti per i diritti umani che minacciati di repressione e tortura in Egitto, a causa delle loro idee, sono stati costretti a scegliere la via precaria e dolorosa dell’esilio, dopo il ritorno dei militari al potere. I nuovi esuli egiziani sono scappati dal loro paese per sfuggire al carcere, a sommari processi di massa, a tentativi di cooptazione, alla censura di chi non voleva che raccontassero – ad esempio – dettagli scomodi sulla tragica fine di Giulio Regeni. Per alcuni l’esilio è arrivato dopo lunghi periodi di detenzione, segnati da violenze fisiche e psicologiche. Lo spettacolo porta sulla scena queste testimonianze, attraverso un’esperienza tra teatro e pratiche dell’audiovisivo, che il pubblico vive assieme ai performer in una dimensione che sovrappone la sfera personale e quella politica e da cui emergono fatti, biografie, memorie».

Sulla carta, Fuga dall’Egitto di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio sembrerebbe essere un progetto interessante in cui più codici espressivi si fondono per ricercare una nuova forma comunicativa, sospesa tra la preoccupazione informativa e la necessità di suscitare un cambiamento nei suoi fruitori. Nella sua attuazione, però, questo «intreccio tra atto performativo, cinema del reale e installazioni sonore» scade ben presto in un esercizio di stile autoassolutorio in cui l’interprete principale (la stessa Fieno) tenta, in modo fallimentare, di legittimare la propria scelta di rappresentare proprio questo tema davanti a un pubblico che, a fine serata, si ritrova con ben poche nozioni in più di quante non ne avesse prima (supponendo un interesse per l’Egitto e una lettura anche solo generica dei quotidiani nazionali e internazionali negli ultimi anni) e, cosa ancora più importante, con l’erronea convinzione di aver “capito” la situazione egiziana del dopo-golpe di Abdel Fattah al-Sisi. Ma andiamo con ordine.

Il primo problema di questa pièce è il focus. Nonostante le ripetute excusationes non petitae dell’interprete – che assicura a più riprese al pubblico (e a sé stessa) che lo spettacolo non vuole raccontare di Miriam Selima Fieno, ma dell’Egitto – appare evidente che il centro gravitazionale dell’intera narrazione sia solo e soltanto Fieno la quale, consapevole dell’arbitrarietà della sua scelta rappresentativa, sceglie comunque di mettere e tenere in scena la propria personalità per i tre quarti del gesto performativo, imponendola con gran brusio tecnologico in tutti i canali di comunicazione a lei disponibili. Da ciò, ne risulta un susseguirsi di quadri personali che accompagnano gli spettatori e le spettatrici nei retroscena e nei preparativi di questa aspirante reporter teatrale, che porta sul palco del Teatro Astra di Torino il racconto di un viaggio personalissimo (con tanto di filmati di famiglia e incursioni video-artistiche nella cameretta d’infanzia dell’attrice) talmente presente nella rappresentazione da fagocitare le sparute interviste che, effettivamente, danno contenuto al tutto. Come si noterà in questa recensione, si parlerà più degli autori della pièce che della diaspora egiziana post-2013 e della degenerazione dei diritti umani nel paese, proprio perché quest’ultime passano quasi immediatamente in secondo piano nella rappresentazione scenica.

Il secondo problema di questa pièce, strettamente legato al primo, è l’approccio al contenuto. Dopo un’iniziale momento di imbarazzante entusiasmo sensazionalista, infatti, Fieno viene riportata con i piedi per terra dalla giornalista e docente universitaria Azzurra Meringolo Scarfoglio, che le apre gli occhi sugli effettivi funzionamenti dei rapporti internazionali tra stati, sui permessi che un professionista dell’informazione deve richiedere e ottenere per poter fare lavoro investigativo in un paese a guida militare e, più in generale, sugli ovvi pericoli che una ricerca del genere comporta (come se l’esempio di Regeni, Zaki e delle migliaia di dissidenti politici invisi al regime non bastasse per rendersi conto della serietà della situazione). Ammonita anche da Bahey El-din Hassan, difensore dei diritti umani già dagli anni ’80 e cofondatore e direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies, da lei intervistato, l’attrice, improvvisamente, capisce che «il progetto ha dei rischi». A una prima leggerezza, dunque, segue una presa di coscienza che porta Fieno (e Di Chio) a ridimensionarsi e, tra blocchi pandemici e legittimi ripensamenti di attivisti/e che in un primo momento si erano detti/e entusiasti/e di partecipare a questo progetto per poi tornare sui propri passi, consapevoli dei pericoli a cui stavano andando incontro, a limitarsi alle strade sicure dell’Europa.

Il terzo problema è l’interpretazione. Faticosa nel suo entusiasmo fuori luogo e a tratti perfino fastidiosa nella sua estetica caricaturale (pensiamo, tra i vari esempi, all’uso di luci rosse, all’impiego di un timbro vocale smorzato e all’introduzione di una corporalità ricurva e “cospiratoria” per parlare delle torture, dei soprusi e delle violenze cui sono soggetti i prigionieri politici egiziani prima e dopo il fallimento della Primavera Araba), la presenza scenica di Miriam Selima Fieno è incerta e ridondante, come dichiara lei stessa nel riconoscere l’esistenza di un vuoto drammaturgico, della necessità di una figura che «autorizzi, con la sua presenza, la mia». Ma fino all’ultimo momento, quando questa figura verrà finalmente rivelata, Fuga dall’Egitto manterrà dei toni leziosi da presentazione à la TED Talks o, peggio ancora, da americanissimo sales pitch, in cui la fibrillazione dell’interprete e le musiche (interessanti seppur troppo incalzanti nella loro versione elettronica) creano uno spaesamento che veste di imminenza un reiterato e storicamente radicato abuso di potere che va avanti da decenni, svuotandolo, di fatto, di gravitas.

Il quarto problema è la gestione delle interviste. Nonostante tutte le legittime preoccupazioni che la stessa Fieno, ormai da un’ora, continua a sciorinare sulla propria autorità nel merito del tema in questione, il teatro documentario dell’assurdo procede senza sosta sui propri binari morti, intavolando delle conversazioni molto rigide con gli esuli che hanno accettato di prestarsi a questa mise en espace politica. Dopo una prima e innocua intervista con il già citato Bahey El-din Hassan (innocua nel senso di prevedibile nelle domande e nelle risposte, che non vanno a indagare nulla che non sia già stato detto o scritto sul tema, anche dallo stesso Bahey), Fieno e Di Chio si spingono “fino” in Germania per parlare col chirurgo egiziano e attivista per i diritti umani Ahmed Said, un «rivoluzionario sconfitto» che mette subito in discussione il precario equilibrio del progetto teatrale. Con frasi dalla banalità disarmante, Fieno tenta invano di ricondurre la tremenda esperienza umana di Said all’interno della propria scatolina rappresentativa, dalla quale, però, le parole taglienti come lame dell’intervistato fuoriescono con violenza, ponendo interrogativi a cui l’interprete sceglie di non dare seguito. «Pensa ai tuoi cazzo di problemi», dichiara perentorio Said, rivolgendosi più in generale a tutti quei giornalisti che si avvicinano al “poverino” di turno per lavare la coscienza dei lettori “umanitari”, senza mai interessarsi ai rapporti economici e alle ingerenze del proprio paese di provenienza nelle politiche interne ed esterne dell’Egitto. Ma Fieno e Di Chio fanno orecchie da mercante, procedendo col proprio progetto, ingigantendo nella narrazione l’impresa di chi, tra le comode vie europee, vuole vivere un’avventura a tutti i costi.

Il quinto problema, quello finale e forse per questo riassuntivo dei precedenti, è la conclusione. Dopo un’estenuante ora di spettacolo, in cui il pubblico è chiamato a seguire, come già detto, i dilemmi personali di due performer schiacciati dalla propria scelta arbitraria e ingiustificata (dire che i confini non esistono e che tutti i problemi del mondo ci riguardano non basta, sempre ricordando che nessuno, in sala, ha chiesto delle spiegazioni circa la scelta di rappresentare questo determinato paese in questo determinato contesto storico e politico, tradendo fino all’ultimo un’insicurezza di base che permea tutta l’opera), sembra quasi scorgersi una luce alla fine del tunnel. Dopo essere “uscita di scena” in modo un po’ goffo (complice la regia), ecco che la musicista, compositrice e sound designer Yasmine El Baramawy viene fatta rientrare nello spettacolo, questa volta senza l’oud in mano, per colmare finalmente quel vuoto scenico che per così tanto tempo aveva ossessionato Fieno. Vittima di molestie sessuali e stupro da parte di una dozzina di manifestanti durante le sommosse di piazza Tahrir, El Baramawy racconta la propria storia e la propria indignazione verso un movimento “democratico” che ha preferito insabbiare gli aspetti più scabrosi delle rivolte di quegli anni per evitare di screditarne lo spirito libertario, lasciando di fatto senza giustizia almeno altre 91 donne, vittime, come lei, di una nazione con più di un solo problema da risolvere.

Paradossalmente, è proprio nella tanto attesa intervista dal vivo a Yasmine che è possibile vedere tutti i limiti di questa pièce a metà tra il giornalismo dilettantistico e l’attivismo irresponsabile. Alle considerazioni ficcanti dell’egiziana, che collega senza troppi giri di parole lo sdoganamento della violenza sulle donne anche all’interno dei movimenti rivoluzionari a una matrice religiosa latente anche nell’Egitto “moderato” del dopo Morsi e degli ora fuorilegge Fratelli Musulmani, ad oggi perseguitati dal governo di al-Sisi ma ancora ben radicati con le loro idee nelle coscienze di una parte della popolazione, Miriam Selima Fieno risponde con una censura di fatto («ne abbiamo già parlato e mi dissocio», citazione a memoria), rivelando, se non una forte lacuna argomentativa sul tema dell’Islam, perlomeno una totale mancanza di rispetto per chi, come Yasmine, si presta a un progetto a prima vista serio per parlare di una verità fin troppo taciuta, sbattendole la porta in faccia forse per paura di farsi trascinare via dalla forte corrente di un Egitto contemporaneo ancora assetato di rivoluzione e secolarizzazione, un’immagine troppo indigesta per l’estetica sensazionalista ma politicamente vacua dell’opera.

Fuga dall’Egitto perde così l’unica occasione di riscatto che le era rimasta, andando ad allinearsi a quelle realtà umanitarie che si nutrono del disagio (Ahmed Said docet), senza cercarne effettive soluzioni e senza voler scendere a compromessi con la realtà, quel marasma di contraddizioni in cui ben poche cose sottostanno a una netta divisione manicheistica del mondo. L’imbarazzante presa di posizione sul tema religioso, degna del peggior giornalismo, è l’ultima goccia che fa definitivamente esplodere il vaso già incrinato dello spettacolo, rivelando il vero motore di tutto l’apparato scenico messo su da Fieno e Di Chio: un esercizio non di disinteressato ascolto dell’altro, ma di egocentrica ricerca di attenzione in quanto artisti “impegnati”. Un’attenzione che annega nella propria autoreferenzialità dopo un’ora e mezza di totale crisi drammaturgica.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival delle Colline Torinesi 26
Teatro Astra
via Rosolino Pilo 6 – Torino
domenica 24 ottobre 2021
ore 19:00

la Fondazione TPE presenta
Fuga dall’Egitto
di Miriam Selima Fieno e Nicola di Chio

con Nicola Di Chio, Yasmine El Baramawy, Miriam Selima Fieno
regia di Nicola Di Chio e Miriam Selima Fieno
drammaturgia Miriam Selima Fieno
musiche originali Yasmine El Baramawy
filmmaking Julian Soardi
video di archivio Hazem Alhamwi
consulenza sulle tematiche Azzurra Meringolo Scarfoglio
con la partecipazione di Bahey El-din Hassan, Taher Mokhtar, Ahmed Said
produzione TPE -Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi, TieffeTeatro Menotti
con il sostegno di Centro di Residenza IntercettAzioni
in collaborazione con IAC (Inter Arts Center) / ICORN /Malmö Stad Kulturförvaltningen
Amnesty International
si ringrazia Hazem Alhamwi, Abdullah Miniawy, Mohamed Soltan, Zona K Scappatoia Culturale

Progetto vincitore bando IntercettAzioni del Centro di Residenza IntercettAzioni/ Circuito CLAPS, Industria Scenica, Zona K, Teatro delle Moire, Milano Musica.

Progetto vincitore bando MOVIN’UP sostegno alla mobilità internazionale dei giovani artisti italiani