Il Grigio, Saverio di Giorno e il teatro di Gaber

Recensione Il grigio. Lo scrittore e intellettuale calabrese in scena all’ex Ospedale psichiatrico giudiziario S. Eframo, oggi Je so pazzo, di Napoli con Il grigio, adattamento del celebre testo di Giorgio Gaber e Sandro Luporini.

Il teatro è esperienza umana. E al pari di ogni altra umana esperienza è organizzata simbolicamente. Ad indentificare, tramite il rappresentante, i rappresentati; attuando irripetibilmente un patto tacito di reciprocità tra attore e spettatori; adoperando grammatiche di comprensione semiotica, fisica, linguistica, paraverbale. Un medium, forse quello più efficace, per riportare l’uomo alla sua origine sociale, specchiarlo nell’altro da sé, (ri)connetterlo con la propria interiorità in relazione (e confronto) alla comunità a cui appartiene. O da cui decide di isolarsi.

Fu l’isolamento ad ispirare una trentina di anni fa Giorgio Gaber nella stesura del Grigio, a quattro mani con Alessandro Luporini. La storia di un uomo che si ritira in campagna, esausto della città. Alle prese con uno sgradito ospite in casa… Metaforicamente si decise per un’azione artistica di antagonismo velato ad una attualità, di allora, inesorabilmente destinata a derive omologanti, populiste, di consumo – che avrebbero portato all’insediarsi del Berlusconismo qualche anno dopo -. Ma è l’indagine introspettiva sulla persona e i propri fantasmi, rimbombata nel pozzo delle nostre coscienze nel buio di un teatro, a svelarsi. Perché è dall’uno, dall’io, che non si prescinde per dire di molti. Per dire di tutto. Per suscitare domande, porre dubbi all’assopimento delle certezze, deviare le strade percorse per buone.

Indubbiamente un atto di coraggio concretizza Saverio di Giorno nel riadattare il testo. Mettersi alla prova, considerare di potere fallire, non decidere per facili consensi e acclamazioni. Sulla scena, un muro dinoccato sul fondale, artigianalmente riprodotto somigliando ad uno sgarrupo, avanzi di suppellettili per cibo riposti sopra, sfondo nero. Scuro come un paio di quinte ai lati, non parallele, a porre possibili uscite, nascondere e creare mistero, persuadere, codificare. Una scrivania in primo piano, sulla sinistra, luce naturale a pioggia, calda, una chitarra stonata oltre la ribalta. Polvere, abbandono.

Dalla platea al palco Di Giorno, a volere significare un approdo comune, assottigliare distanze, col piglio dell’attore che sa di essere bersaglio di sguardi, di pensieri. Li sente tutti. Suda, si dimena, accelera, rallenta, dimentica le pause – qualche volta – fa attenzione a ricordarsi le battute, segnalando, anzi, significando un’autenticità che slabbra l’attenzione al virtuosismo, ricrea sentimento, affezione, empatia. Ci metterà di suo, sovrapponendosi alla drammaturgia, al repertorio, ponendosi taumaturgicamente strumento di coralità: in altre parole riflette, recitando, un sentire comune sovente taciuto da convenzioni accettate per ragioni di stato, o di quiete sociale. Ed è una parola che diventa eufonica, crea quell’armonia indispensabile all’assunzione sensibile del proposto, all’assunzione artistica (rispettando il cenno della finzione e aderendo a quegli schemi assunti a linguaggio universalmente riconosciuto). Non s’improvvisa insomma Di Giorno, pur calcando le scene senza l’esperienza del mestierante o del veterano. La poliedricità di interessi, intellettuali, traspare dalla presenza scenica talvolta impacciata nella fisicità, ma densa e pregna di una drammatizzazione efficace ad approdare prepotente. Perché il teatro non è solo quello del mercato e del mercanteggio, dei critici corrotti, delle marchette senza ritegno, delle consorterie e di ciò che gira perché deciso in camere oscure. Il teatro è ciò che fa muovere masse e intimità, nel rispetto del lavoro e delle regole (le grammatiche, gli stilemi, i codici, l’arte).

I quadri vanno veloce. La biforcazione tra impersonificazione e slittamento si fa sempre più labile. L’attenzione aumenta, lo stato di chi vede e ascolta muta. E arrivano verticali i significati, il contatto, la sensazione di rinnovare memoria, quella memoria che ci permette di non essere completamente assuefatti da ciò che propinato, ci induce all’ammaestramento, allo spirito del gregge.

La sapiente regia di Gianmarco Cesario, un veterano del teatro napoletano e nazionale, guida Di Giorno verso una inaspettata compiutezza d’opera. Lasciandolo libero di prendersi la parte, di metterci la faccia, di indossare la maschera.

Applausi.

Lo spettacolo è andato in scena
ex Opg Je So’ Pazzo
via Matteo Renato Imbriani 218, Napoli
3 ottobre 2023
Il grigio
libero riadattamento di Giorgio Gaber e Sandro Luporini
consulenza alla regia e adattamento di Gianmarco Cesario
con Saverio di Giorno