Nessuna metamorfosi

Recensione La metamorfosi. All’Argentina di Roma è andato in scena l’adattamento teatrale de La metamorfosi, il più celebre racconto lungo di Franz Kafka. L’ambiziosa operazione tentata da Giorgio Barberio Corsetti non spicca il volo, nonostante l’apprezzabile prova degli attori, l’introduzione di un inaspettato coro tragico e un’imagoturgia a tratti magniloquente.

«Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo». L’incipit de La metamorfosi (Die Verwandlung) non lascia dubbi: la vita quotidiana del protagonista è stata stravolta per sempre. La schiena dura come una corazza, il ventre arcuato diviso in tanti segmenti ricurvi, una moltitudine di zampette che fuoriescono da un turgido involucro corporeo: Gregor è estraneo a se stesso e deve adattarsi alla sua nuova condizione. Le leggi della realtà da tutti riconosciute come normali o naturali sono state sospese: non viene fornita nessuna spiegazione, di carattere magico o scientifico, psicologico o religioso. La catastrofe è già avvenuta in un tempo insondabile: non resta che descrivere gli effetti di un breakdown che si è consumato in un enigmatico altrove (nell’infanzia di Kafka? nella nostra? nell’io del protagonista o in quello collettivo del pubblico? nel canone mimetico della letteratura occidentale?).

“È sbagliato pensare alla malattia psicotica come ad un crollo – avverte Winnicott – si tratta piuttosto di una riorganizzazione di difesa nei confronti di un’angoscia arcaica” (La paura del crollo), come quella di venire disintegrato, di cadere senza potersi aggrappare a qualcuno, di non essere stabilmente insediati in un corpo, di perdere il contatto con la realtà esterna o di essere per sempre incapaci di usarla. A questo livello precoce della vita umana, la differenziazione tra me e non-me si è ancora determinata, né può farlo senza il sostegno di una madre o di un padre sufficientemente buoni. L’agonia a un tempo soffocata e debordante di Gregor Samsa, “impossibile da pensare”, pervade con un raggelante senso di vuoto il lettore del racconto kafkiano ma non arriva a materializzarsi hic et nunc sulla scena. L’allestimento scenografico di Massimo Troncanetti è pieno di gusto e di ingegnosi accorgimenti tecnici (le due stanze semoventi, la cornice sghemba del quadro, le pareti luride e vuote, il gancio a cui si appende l’insetto), ma in fondo privo di attrattori in grado di operare il controtransfert del pubblico. Qualcosa non ha funzionato nel trasferimento del testo al setting teatrale, fatto di parola, di corpo e di azione: senza un soggetto (comunque lo si voglia intendere, centrale, multiplo, laterale), senza una messa in prospettiva che elabori il portato di pensieri, emozioni e vissuti fissati nel racconto non vi può essere alcuna autentica restituzione, né appello né trasformazione (per l’appunto Verwandlung). Alla fine siamo tali e quali eravamo all’inizio.

L’evento soprannaturale viene assunto come un dato di fatto, registrato nella sua positivistica crudezza, narrato in terza persona: siamo costretti ad accettare senza opporci le nuove regole di un gioco che esige il riposizionamento dei giocatori ed evoca sinistri significati. La madre, il padre e la sorella – come noi, del resto – fanno fatica ad accettare questa Metamorfosi che non ha nulla di poetico o di mitologico (come in Ovidio) né si conclude – come in Apuleio – con un rassicurante ritorno alle fattezze umane. Il processo di alienazione (e di degradazione) da uomo a bestia non è seguito dall’auspicata disalienazione: non c’è crescita né arricchimento spirituale come nella dialettica hegeliana, ma un micidiale lavoro di negazione (Verneinung) dell’oggetto (l’esistenza di Gregor) che sconfina in un lucido diniego (Verleugnung). A questo primitivo meccanismo della mente alludono le agghiaccianti parole che la sorella di Gregor indirizza al padre, dopo alcuni giorni di coabitazione con il sudicio fratello/figlio divenuto altro da se stesso: «Via, deve andare… Tu devi soltanto cercare di liberarti dal pensiero che sia Gregorio. La nostra vera disgrazia è che noi l’abbiamo creduto così a lungo. Ma come può essere Gregorio? Se lo fosse, egli avrebbe da tempo ben compreso che non è possibile una vita comune di esseri umani con una simile bestia e se ne sarebbe andato via spontaneamente. Noi non avremmo più un fratello, ma potremmo continuare a vivere e onorare la sua memoria. Così invece questa bestia ci perseguita, scaccia i pensionanti, vuole evidentemente occupare tutta la casa e mandarci a dormire nella strada».

L’immondo scarafaggio, interpretato con “umana” disperazione (Verzweiflung) da uno smilzo e scattante Michelangelo Dalisi, non trova posto nel mondo della ragione sufficiente, dei sistemi di parentela, dell’efficienza lavorativa: è l’incarnazione plastica del prefisso Ver- che compare nei diversi termini tedeschi qui impiegati, corrispondente all’italiano s- o de-, dal chiaro valore privativo (se non addirittura dispregiativo). La scissione tra il mondo e l’im-mondo (nel senso di “privo di mondo”) o, se vogliamo, tra ciò che è mondo (pulito, libero da peccato) e ciò che è immondo (nel senso di “lurido”, “peccaminoso”) non potrebbe essere più netta: la scenografia attesta questa rottura che non è solo simbolica e psicologica, ma anche visibile e concreta.

«Visse ancora tutto il tempo che il cielo mise a rischiararsi fuori della finestra, poi il suo capo senza volere si chinò, e debolmente gli sfuggì dalle narici il suo ultimo respiro». Dopo essere stato ricacciato dal padre nella sua stanza e da questi colpito con una mela, che gli si era conficcata nella schiena causando un’infezione, dopo essersi accontentato degli scarti puteolenti di cibo che la sorella gli procurava, sino a divenire anoressico, Gregor – che perfino negli ultimi istanti della sua vita «ripensava alla sua famiglia con amore e commozione» – è finalmente morto. Il padre ringrazia Dio, la serva spalanca le finestre e ne rimuove la carcassa oramai rinsecchita, i genitori possono finalmente progettare un cambiamento di dimora e pensare al futuro matrimonio della figlia. E noi?

Nessuna metamorfosi, nessun ritorno del rimosso, nessuna perplessità per essere stati catapultati in un’assurda dimensione: i nostri meccanismi di difesa sono rimasti intatti, per l’intera durata della rappresentazione, le nostre attese cognitive ed emotive non hanno subito alcun contraccolpo. Ci chiediamo se ciò non sia dipeso dal fatto che gli attori abbiano recitato il racconto di Kafka, come fosse un Vangelo, senza sceneggiarlo. Smontarlo, rimontarlo, decostruirlo, reinventarlo, spezzarlo, distorcerlo, ridurlo al grado zero, bruciarlo (non era questo che lo scrittore ceco aveva chiesto all’amico Max Brod, attribuendogli il ruolo di suo esecutore testamentario?) avrebbe probabilmente significato lavorare con l’inconscio del testo e, quindi, anche con il nostro. La trasformazione di Gregor in insetto, che poi è il modo in cui si sentiva agli occhi degli altri, non sarebbe stata vana e la sua morte o il suo crollo – probabilmente avvenuti già poco dopo la nascita – ci avrebbero realmente trasformati.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Argentina
Largo di Torre Argentina 52, Roma

La metamorfosi
di Franz Kafka, traduzione di Ervino Pocar
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano / Gea Martire, Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri
vocal coaching e musiche Massimo Sigillò Massara
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Marco Giusti
assistente alla regia Tommaso Capodanno
foto di scena Claudia Pajewski
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale